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Il primo weekend del nuovo anno propone sul grande schermo “Il GGG – Il Grande Gigante Gentile”, l’ultimo film di Steven Spielberg, che grazie all’adattamento dell’omonimo romanzo del 1982 di Roald Dahl e della produzione Walt Disney fa ritorno al genere fantastico già ampiamente percorso in passato (vedi “E.T. l’extra-terrestre”, “Hook-Capitan Uncino”, e “Le avventure di Tintin-Il segreto dell’Unicorno”).
Il Grande Gigante Gentile (Mark Rylance) è una figura lunare, che vive in un mondo a parte, estraneo agli umani: a suo modo, è lui stesso il rappresentante della Diversità, perché – a differenza degli altri suoi simili – non si nutre di carne umana ed è dolcissimo. Una notte rapisce Sophie (Ruby Barnhill), una bambina spaventata che vive in un orfanotrofio londinese, e la porta via con sé, a inventare sogni felici per i ragazzini addormentati. Insieme i due dovranno anche sventare la minaccia rappresentata dal ventilato attacco agli umani degli altri giganti, per cui verrà messa in guardia addirittura la regina d’Inghilterra.
“Il GGG” è un film arioso, emozionante, commovente senza retorica, come nella miglior tradizione spielberghiana, che sa coniugare con semplicità ferocia estrema e bontà, dolore e gioia, tenebra e luce. Spettacolo anche per adulti che non hanno smarrito del tutto il ricordo dell’incantesimo dell’infanzia, trascina in un universo di emozioni primarie, di dualismi ma anche di sfumature, che la grafica Disney sa valorizzare al massimo grado. E’ il trionfo della fantasia, della tolleranza, dell’apertura all’Altro: un messaggio presente nel cinema di Spielberg sin dagli esordi, oggi condiviso anche dalla casa d’animazione più famosa e conosciuta nel mondo.

“Lion – La strada verso casa”, primo lungometraggio di Garth Davis (il co-regista, con Jane Campion, degli episodi della miniserie “Top of the Lake – Il mistero del lago”), traspone la storia vera di Saroo Brierley, raccontata nel libro “A Long Way Home”.
Saroo (Dev Patel, già straordinario protagonista, nel 2008, del pluripremiato “The Millionaire”, nel ruolo di Jamal) è un bambino di soli cinque anni, che una notte del 1986 segue il fratello maggiore, che trasporta balle di fieno nel distretto indiano di Khandwa. Vinto dal sonno, al risveglio Saroo si ritrova in un posto sconosciuto, senza più alcuna traccia di suo fratello. Salito per errore su di un treno, il bambino percorre ben 1600 km, sino a raggiungere la caotica e labirintica Calcutta, dove viene trasportato in un orfanotrofio e poi adottato da una coppia australiana, Sue (Nicole Kidman) e John (David Wenham) Brierley. Molti anni più tardi, oramai cresciuto, Saroo si metterà alla ricerca della sua famiglia originaria, con l’aiuto dei propri scarsi ricordi e di Google Earth.
“Lion” conquista per la bellezza e grandiosità delle immagini, per la struttura narrativa perfetta, senza sbavature e inopportuni sentimentalismi. Il racconto dell’odissea del bambino e poi del giovane uomo, ansioso di recuperare le proprie radici nonostante l’affetto dei genitori adottivi, è incarnato con estrema maturità artistica da Dev Patel, e supportato dalle interpretazioni della Kidman e di Wenham, carismatici e in parte.
Il film sa coniugare realtà e storia, melodramma e cronaca, sublimando il tutto in un’azzeccata commistione di scene, dialoghi e musiche che servono a sottolineare senza enfasi il dramma di Saroo: queste caratteristiche, tra l’altro, lo rendono un candidato ideale all’Oscar.

Con “Passengers” Morten Tyldum (candidato all’Oscar nel 2015 come miglior regista per “The Imitation Game”) firma un’opera qualitativamente inferiore alle sue precedenti, non riuscendo a gestire con efficacia l’incursione in un genere come la fantascienza.
Il film, con tentativi di produzione falliti già dal 2007, anno a cui risale la sceneggiatura di Jon Spaihts, narra le disavventure cosmiche di due passeggeri della nave spaziale Avalon, che ospita al suo interno una colonia di cinquemila persone in stato di addormentamento indotto, che viaggiano alla volta di un nuovo pianeta da colonizzare, Homestead II.
Lo scontro imprevisto con un meteorite crea un grave problema di malfunzionamento dell’astronave, in seguito al quale Jim Preston (Chris Pratt), meccanico, e Aurora Lane (Jennifer Lawrence), scrittrice newyorkese, si risvegliano con un anticipo di circa novant’anni sulla data prevista. L’astronave è in avaria, e a rischio non c’è solo la loro vita, ma quella di tutti i passeggeri: la loro final destination è nelle mani e nell’audacia di Aurora e Jim.
La pellicola non è all’altezza dello spunto narrativo di partenza, originale anche se già presente, ad esempio, in un episodio della serie televisiva degli anni Settanta “Spazio 1999”: il plot è debole e si trascina stancamente, finendo per trapassare dalla fantascienza a un romance piuttosto convenzionale.
La Garner e Pratt, più divi che attori in grado di conferire spessore a un ruolo, si adeguano al contesto, flirtando fra loro come richiesto dalla storia e dai loro personaggi. Alcune scene sono, anche visivamente, azzeccate, ma questo non basta, purtroppo, a nobilitare un prodotto dell’entertainment americano che rimane bassamente commerciale e di pura evasione.

Barbara Rossi

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