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Il weekend dell’Epifania ci propone, per cominciare, “Collateral Beauty”, ultimo film di David Frankel (“Il diavolo veste Prada”, “Io e Marley”), storia dickensiana sulla tragica e insieme luminosa vicenda di un uomo, Howard (Will Smith), preda di una profonda depressione in seguito alla morte della figlia bambina, che viene ricondotto alla vita da un gruppo di tre amici e colleghi e da altrettante “figure” simboliche (in realtà attori), con le quali inizia a confrontarsi e a dialogare: il Tempo, l’Amore e la Morte.
Il plot è estremamente semplice, essenziale (richiama anche le due prove mucciniane “Alla ricerca della felicità” e, soprattutto, “Sette anime”), il cast stellare, da Edward Norton a Kate Winslet, Keira Knightley ed Helen Mirren, quest’ultima particolarmente efficace nei panni della Morte.
Tuttavia il film non decolla, stretto nelle maglie di un dramma e di un riscatto esistenziale fin troppo prevedibile e annunciato, soffocato dalla consueta retorica del lieto fine e dei buoni sentimenti.
Rimane la “collateral beauty” del titolo, la bellezza indiretta e parallela dei piccoli atti di coraggio e di generosità, dell’apertura all’Altro, per la quale nel film si auspica una diffusione maggiore, una quotidianità senza ombre.

“Sing”, di Garth Jennings, già apprezzato regista di video musicali, prodotto dalla Illumination Entertainment, racconta tramite la consueta ed efficace tecnica d’animazione che conosciamo sin dai tempi dei “Minions” la divertente ed emblematica storia del koala Buster Moon (doppiato nella versione originale da Matthew McConaughey), proprietario di un teatro sull’orlo del fallimento, che per salvarsi dalla scure dei creditori organizza un autentico talent show, con numeri d’eccezione messi in scena da un complesso eterogeneo e strampalato di buffi artisti: tra gli altri, la maialina Rosita, mamma di venticinque figli, Johnny, gorilla con la vena blues, Mike, topolino dall’ugola d’oro, e poi la porcospina rocker Ash e l’elefantina Meena, dotata di un grande talento e di un’incredibile timidezza.
Racconto variopinto e rutilante sul mondo del teatro e della sua emanazione contemporanea, il talent show, “Sing” è un film divertente, tipico prodotto dell’entertainment ma anche favola morale che rispecchia il mondo umano, non solo quello artistico.

Con “Il cliente” il regista iraniano Asghar Farhadi – vincitore nel 2009 dell’Orso d’Argento a Berlino per “About Elly” e di due premi al Festival di Cannes lo scorso anno, per “The Salesman” – ritorna a far coincidere teatralità e quotidiano, cronaca e rappresentazione, attraverso la storia di Emad (Shahab Hosseini) e Rana (Taraneh Alidoost), una coppia costretta dalle pessime condizioni dell’edificio in cui abita a cercare una nuova sistemazione, con l’aiuto di un attore della compagnia teatrale con la quale stanno mettendo in scena “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller. La nuova dimora crea a Rana ed Emad non pochi problemi, a partire dall’aggressione subita dalla donna da parte di un cliente della vecchia inquilina: l’atto violento, di cui Emad si fa carico sia a livello concreto che simbolico e morale, fa sprofondare i due in un girone infernale, dal quale sarà difficile trovare una via d’uscita.
Film sociologico, sui limiti e le evoluzioni di una società, quella iraniana, sempre tesa alla ricerca di una “modernità” imprecisa e sfuggente, analisi impietosa, bergmaniana, di una crisi di coppia, teatro nel teatro: “Il cliente” riflette con maestria e sagacia su presente e passato di un luogo, innalzandolo a emblema della condizione umana.

Barbara Rossi

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