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In questo primo fine settimana di ottobre segnaliamo tre pellicole, particolarmente interessanti per contenuto, stile e virtuosismo della regia.
I magnifici sette, di Antoine Fuqua (Training Day, 2001), compone un cast stellare – da Denzel Washington a Ethan Hawke – e quasi sempre all’altezza del compito che gli viene affidato: riproporre la storia dei sette pistoleri, spesso pericolosi criminali, che accettano di proteggere una piccola comunità dalle insidie, in questo caso, di un affarista senza scrupoli.
La cittadina nel film di Fuqua è quella di Rose Creek e qui viene posta in risalto la presenza del personaggio femminile di Emma Cullen (Haley Bennett), snodo e stimolo per l’evolversi della trama.
Per il resto, I magnifici sette è un buon remake dell’originaria pellicola diretta da John Sturges nel 1960 (a sua volta ispirata a I sette samurai di Akira Kurosawa, 1954): i personaggi sono ben delineati, le scene d’azione e di duello efficaci.
Non vengono persi neppure i temi, chiavi di lettura del film di Sturges, dell’onore, dell’amicizia virile, della solidarietà che si estende oltre le differenze sociali, sullo sfondo della rappresentazione della frontiera americana alla fine del 1800.

E’ un grande ritorno cinematografico, invece, quello di François Ozon con Franz, presentato in concorso alla recente Mostra del Cinema di Venezia.
Sottile e inquieto indagatore dei sentimenti e delle emozioni, lungo quell’esile linea di confine che separa la realtà dalla finzione, la menzogna dalla verità, Ozon racconta con eleganza formale (non è casuale la scelta del bianco e nero) e delicatezza di sguardo il misterioso, ambiguo rapporto che si viene a creare tra Anna (Paula Beer), giovane vedova di un soldato tedesco caduto nei combattimenti della Grande Guerra, e Adrien Rivoire (Pierre Niney), reduce francese con molto orrore dentro, e un segreto da custodire.
Lentamente, con la consueta attenzione che Ozon dedica a cose, persone, situazioni, spesso osservandoli come sotto la lente di un entomologo, la macchina da presa si inoltra nel mondo di ricordi e aspirazioni dei due giovani, raccontando anche per sottrazione la figura di chi è assente – Franz – eppure non ancora del tutto perduto.
Cinema da camera (il film è tratto da una pièce di Maurice Rostand già trasposta da Ernst Lubitsch nel 1932, con il titolo L’uomo che ho ucciso), ma anche vibrante e intimista nella descrizione impressionistica di luoghi e ambienti, Franz è un ottimo vino d’annata, da centellinare senza fretta.

Con Café Society, passato a Cannes la scorsa primavera, Woody Allen torna a raccontare (per la prima volta in una versione digitale) l’America degli anni Trenta, tra New York, città-simbolo per eccellenza del regista e Los Angeles, dimora fittizia, scintillante e spietata dei sogni cinematografici.
Il viaggio, reale e metaforico, passa attraverso lo sguardo puro e spalancato sul mondo di Bobby (Jesse Eisenberg), giovane ebreo newyorkese, che decide di lasciare la bottega paterna per trasferirsi nella città degli angeli, con il desiderio di diventare un produttore come lo zio.
Tra impacci e quotidiane inettitudini (nel personaggio di Bobby si intravede, più che in filigrana, lo stesso regista), splendori e cadute della “café society”, dialoghi leggeri e vacui soltanto in apparenza, si dipana anche una storia d’amore che – come spesso accade in Allen – si configura come amour fou, mito, elegia nostalgica a ciò che avrebbe potuto essere.
Kristen Stewart è un’ispirata Vonnie, sfuggente e inafferabile; l’atmosfera, complici i costumi e le scenografie, è quella di una commedia di Lubitsch, un po’ barocca e sofisticata.
Café Society è un distillato alleniano all’ennesima potenza: in quella continua e tormentata oscillazione tra desiderio e realizzazione, crudeltà e amore, volgarità e bellezza che è oramai da lunghi anni il nucleo narrativo ed emotivo del regista.

Barbara Rossi

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