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Questo fine settimana il grande schermo ci propone l’esilarante, ennesimo ritorno della “pasticciona” Bridget Jones, questa volta alle prese con le sorprese e i guai di una maternità inaspettata, alla soglia dei quarant’anni.
Bridget Jones’s Baby di Sharon Maguire, terzo film dedicato al buffo personaggio femminile nato dalla penna di Helen Fielding nell’ormai lontano 1995, astutamente non varia una formula narrativa ormai collaudata, riproponendo frizzi, lazzi, impacci e gaffes della protagonista calati nello stuzzicante (a livello drammaturgico) contesto dell’arrivo di un figlio.
Alla protagonista Renée Zellweger, sempre comicamente in parte, si affiancano l’eterno fidanzato Colin Firth nel ruolo di Mark Darcy e la new entry Patrick Dempsey (Grey’s Anatomy) nei panni dell’affascinante americano Jack Qwant.
Il plot del film sembra costruito appositamente per la produzione di un effetto nostalgia tra gli appassionati dei primi due capitoli della storia di Bridget, oltre che per catturare nuovo pubblico: la riuscita è buona, anche se non ci si distacca dalla medietà tipica dei prodotti di questo genere.

Con L’estate addosso, storia della fuga-tregua dalla vita di un gruppo misto di diciottenni – italiani e americani – in viaggio attraverso gli Stati Uniti e l’America latina, Gabriele Muccino si riconferma il cantore transgenerazionale di una condizione umana fragile, perennemente in bilico tra autoesaltazione e sconfitta.
Tra dialoghi appassionati, scivolamenti su volti e corpi, ampie panoramiche, Muccino regista si immerge nel cuore della storia e dei suoi luoghi, restituendocene un ritratto coinvolgente e vitale.
Debitore, nello stile, un po’ a Malick, un po’a Linklater (specie quello di Tutti vogliono qualcosa), il regista romano si pone nel solco tracciato da altri sul tema – ormai ampiamente indagato anche dal cinema – del disorientamento giovanile, associato agli ideali sfuggenti e al desiderio di libertà.
Tutto già visto e raccontato, ma Muccino rimane un buon narratore, dalla mano felice.

Questi giorni, passato alla recente Mostra del Cinema di Venezia, distilla un Piccioni d’annata: dopo Il  rosso e il blu del 2012, in cui raccontava la scuola come luogo di possibile bellezza ma anche di contraddizioni, il regista rimane tra le giovani generazioni, costruendo un road movie tutto al femminile: Caterina, Liliana, Anna e Angela (Marta Gastini, Maria Roveran, Caterina Le Caselle, Laura Adriani) sono quattro giovani donne e amiche, in viaggio verso l’Est dell’Europa, Belgrado: conservano segreti dentro di loro – una gravidanza inattesa, una malattia, un innamoramento – ma sono unite da sogni, affetto, solidarietà femminile e generazionale. Il viaggio segnerà un punto di svolta, trasformando le loro vite.
Film corale, arioso ma non superficiale, Questi giorni propone un’ulteriore riflessione sul mondo nuovo rappresentato, in questo caso, dalle ragazze, che lambiscono appena i territori di adulti (molto bravi nei loro ruoli Sergio Rubini, Filippo Timi e la veterana Margherita Buy) sempre più in crisi d’identità.
Nel momento di passaggio dalla giovinezza all’età adulta, descritto attraverso le vicende delle quattro ragazze, Giuseppe Piccioni ci restituisce il senso e l’incantamento di una fase della vita irripetibile e breve, ma capace di imprimere al cammino individuale svolte non banali.
Il finale, in questa prospettiva, rimane sfumato, come è giusto che sia.

Barbara Rossi

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