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Il ristagno dell’economia ha portato alla chiusura di diverse serrande di commercianti cinesi, lanciatisi alla ricerca di investimenti altrove, in particolare in America Latina.

Ristoranti, parrucchieri, centri estetici e abbigliamento parlano mandarino dalle Alpi alla Sicilia

Quando chiude un negozio italiano, si vocifera sempre che i cinesi rileveranno l’attività”.
È questa l’opinione di molte persone che abbiamo intervistato. Eppure potrebbe rivelarsi errato. La crisi non colpisce soltanto gli italiani, e questo processo è iniziato da più di un anno.
Lifang Dong, avvocato italo-cinese e figlia dell’ex presidente della comunità cinese a Roma, aveva rivelato che la situazione economica “ha portato alla chiusura di diverse serrande e alla ricerca di investimenti altrove, in particolare in America Latina, ma non riguarda solo l’Ita lia; direi che è a livello internazionale”.
Anche per i cinesi si rivela difficile destreggiarsi tra spese ed affitti.
E mentre a Roma alcuni negozianti tirano giù le serrande, lo stesso succede a Genova.
abbigliamento-negoziCedono o vendono l’attività anche diversi commercianti di Alessandria e provincia. Cercando di registrare i commenti degli stessi rivenditori cinesi, troviamo chi si risente di alcuni miti che si creano nei loro confronti. Quasi sempre, i cinesi che arrivano nel nostro Paese partono con una quantità di denaro da investire, che si erano guadagnati in Cina.
Chi decide di trasferirsi in Italia non proviene da regioni povere, al contrario, da luoghi economicamente affermati e dinamici.
Il loro obbiettivo è migliorare la loro situazione “senza cercare di rubare il lavoro agli stessi italiani”, precisa uno dei negozianti.
Nella maggior parte dei casi, le famiglie cinesi decidono poi di tornare nel loro paese, dopo aver lavorato all’estero per un certo periodo.
Anche nel loro caso, però, capita che i conti non tornino e si trovino costretti a dover rinunciare all’attività.
Per quanto riguarda le impressioni dei lavoratori italiani, alcuni credono che i negozi cinesi siano troppi, facciano concorrenza sleale, e che a volte, svolgano il lavoro in maniera irregolare.
Alcune lamentele vertono sulla mancanza di assunzioni di dipendenti italiani da parte dei titolari cinesi.
Nonostante tutto, alcuni negozi tengono ancora duro e non mancano nemmeno tentativi di avviare nuove attività: in particolare, sono aumentati i parrucchieri, centri di estetica e di massaggi. E, sempre secondo lo stereotipo che i cinesi non abbiano problemi di denaro, nascono siti come “cinesichecomprano.com”.
Si inserisce un annuncio che verrà poi tradotto e diffuso tra gli imprenditori cinesi.
Si vende di tutto: agriturismi, agenzie di viaggi, gelaterie. A capo dell’iniziativa c’è il 27enne Luca Panizzi, laureato in Marketing.

Ilaria Zanazzo

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Alessandria mangia cinese

La presenza dell’imprenditoria cinese ad Alessandria è una realtà concreta da ben dieci anni. Lo dimostrano, infatti, alcuni dati ricavati da studi sull’economia locale della Camera di Commercio.
cinesi-via-sarpi-LargeClassificando per numero di esercizi commerciali attivi sul territorio, i gruppi etnici più attivi, i cinesi, occupano costantemente dal 2005 al 2012 la quarta posizione, alle spalle di romeni, marocchini e albanesi. Questi ultimi due popoli si sono scambiati la prima posizione nel 2007 (in favore dei balcanici) e nel 2012 (controsorpasso dei maghrebini). La quarta piazza dei cinesi alessandrini è in controtendenza con l’orientamento a livello nazionale, dove, invece, il gruppo asiatico si trova al secondo posto con 44.661 unità.
La prima rilevazione ufficiale della Camera di Commercio sul fenomeno proveniente dall’Asia risale al 2003, nel quale sono identificate ottantacinque attività commerciali. Tra queste ventisei operano nel settore del commercio al dettaglio, trentaquattro in quello degli alberghi e della ristorazione e nove nell’industria alimentare. Dall’anno successivo in poi si assiste all’aumento costante degli esercizi gestiti da cinesi.
Nel 2004 sono centodue (quarantadue negozi e trentacinque alberghi/ristoranti), nel 2005 centoventicinque (cinquantotto negozi e quarantatré alberghi/ristoranti), nel 2006 centoquarantanove (ottantaquattro negozi e trentanove alberghi/ristoranti), nel 2007 centosessantuno (novanta negozi e trentaquattro alberghi/ristoranti), nel 2008 centottantuno (centodue negozi e quarantasei alberghi/ristoranti), nel 2009 centonovantaquattro (centootto negozi e cinquantotto alberghi/ristoranti), nel 2010 duecentotrentuno (centoventuno negozi e settantuno alberghi/ristoranti), nel 2011 duecentosessantaquattro (mancano dati specifici per quest’annata) e nel 2012 trecentoventuno (centoventisei negozi e novantaquattro alberghi/ristoranti).
I settori succitati diventano pressoché il principale campo di azione dell’imprenditoria cinese, con l’aggiunta del commercio all’ingrosso dal 2006. Dal 2012 è stata certificata anche la sua partecipazione nell’ambito del confezionamento di articoli d’abbigliamento.

Stefano Summa

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Novi Ligure: in fuga dal mercato

novi-ligure-mercatoLa notizia arriva inaspettata e tardiva (i primi sintomi sono stati riscontrati a fine 2013) ma arriva direttamente dal Comune di Novi Ligure. In questi mesi il mercato cittadino del martedì, giovedì e sabato ha perso più del 50% dei venditori asiatici che avevano affollato le vie del centro da diversi anni. Tra il 2012 e il 2013 c’erano ben più di venti bancarelle con prodotti cinesi (il picco è stato calcolato tra le 23 e 25), con diverse lamentele dei commercianti italiani. Ora la situazione si è capovolta nel giro di poche settimane. I banchetti dei venditori asiatici sono una decina (13 per la precisione) – e spesso posizionati uno vicino all’altro – mentre i loro connazionali sono spariti da un giorno all’altro. In tutta questa vicenda, stupisce il fatto che ben sei licenze su dieci – che fino al 2013 appartenevano agli ambulanti cinesi – sono state rilevate momentaneamente da commercianti italiani, che hanno già preso posto al mercato. Un dato storico, che ha stupito anche gli addetti dell’Ufficio Commercio del Comune di Novi Ligure, da sempre molto attento a questo tipo di dati. Dei dieci ambulanti che hanno deciso di lasciare la zona del Basso Piemonte, sicuramente poco stimolati dagli incassi mensili, sembra che circa la metà abbia deciso di rimanere in Italia, alla ricerca di fiere e mercati più redditizi. Per cinque o sei di loro che hanno deciso di tornare in Patria, stimolati dal lavoro e da una ricchezza ottenuta negli anni passati in Italia, gli altri si sarebbero spostati in altri mercati del Nord Italia (soprattutto Lombardia). A confermarlo non sono loro stessi (visto che è quasi impossibile strappargli qualche parola), bensì alcuni commercianti italiani, che hanno notato l’inversione di tendenza ben prima delle istituzioni cittadine. L’esodo cinese (tra gli ambulanti) verso altri lidi è cominciato.

Luca Piana

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Conosciamoli meglio

Sono come noi, sono intorno a noi, ma non parlano con noi, al massimo ci dicono il conto: sono i cinesi dell’eterna diaspora.
I primi cinesi arrivarono in Italia ad inizio Novecento, per sfuggire alla rivolta dei Boxer che insanguinava il loro Paese, curiosamente fuggivano da una guerra causata dall’eccessiva presenza occidentale in Cina.
turisti-cinesi-colosseoUn gruppo più nutrito raggiunse lo Stivale dalla vicina Francia nel 1917: facevano parte di un contingente di 100mila persone “importato” dai transalpini per lavorare nei campi e nelle fabbriche durante la Guerra Mondiale, che aveva sottratto molte braccia al lavoro; da noi arrivarono in quaranta, tutti provenienti dalla regione dello Zhejiang e tutti maschi.
Attualmente in Italia si contano circa 240mila cinesi regolari, ed il fatto che il 90% di loro provenga dalla regione dello Zhenjiang ci permette di capire quanto la forza di questo popolo sia l’unione; arrivano da noi tramite l’amico o il parente, con cui fanno impresa e convivono, una cultura vecchia di migliaia di anni sa bene come fare a sopravvivere in ogni situazione, parole chiave “solidarietà” ed “onore”.
Le leggenda racconta che “i cinesi non muoiono mai”: l’età media dei cinesi in Italia è di 29 anni, dieci di meno della media nazionale; inoltre sono atei ed agnostici, perciò nessun rito: l’unico desiderio del cinese della diaspora è di essere sepolto in Cina, nella collina vicino a casa; il rientro in patria è una costante nella loro cultura, così come lo è l’ossessione per la ricchezza. Certo, molte volte possono rappresentare una minoranza scomoda perché lavorano a ritmi impossibili per molti di noi, ma è colpa loro se sono granitici e volenterosi? Inoltre: dal nostro Paese nello scorso secolo sono emigrate circa 23 milioni di persone, ed il Portogallo con i suoi 14 milioni di abitanti vanta più portoghesi all’estero che in Patria: chi è il “cinese” adesso ?

Nicholas Capra

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