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Natale e dintorni, si sa, rappresentano i momenti migliori dell’anno per concedersi il tempo necessario per godere con la necessaria calma di un buon (si spera) film. Il Natale di quest’anno ci propone tre storie molto diverse fra loro, per trascorrere le giornate di festa.

Perfettamente in tema risulta L’uomo che inventò il Natale del regista indiano Bharat Nalluri, quasi un biopic che ricostruisce il lungo e sofferto processo creativo che condusse uno squattrinato scrittore inglese – Charles Dickens – a comporre, nel lontano 1843, “A Christmas Carol”, uno tra i più celebri e rinomati racconti natalizi della letteratura mondiale. All’epoca, Charles (Dan Stevens, protagonista di Downtown Abbey) è affetto da un ormai conclamato blocco dello scrittore; un padre di famiglia pieno di debiti che non ha idea di come tirare avanti e porta nell’anima il ricordo di un’infanzia misera, non propriamente felice. Natale, tuttavia, è vicino, e da neve, gelo, miseria, avarizia, errori e redenzione, spiriti inquieti e messaggio cristiano di pace e riconciliazione, Dickens fa emergere un racconto dall’afflato universale, realistica cronaca delle condizioni di vita delle classi emarginate londinesi, oltre che magica fiaba invernale e ultraterrena per adulti e bambini. Nalluri, anche grazie alle buone interpretazioni di Stevens e di Christopher Plummer nei panni del vecchio avaro Scrooge, adatta con fedeltà e originalità insieme l’omonimo romanzo di Les Standiford, a sua volta ispirandosi alla fonte primaria del Canto di Natale dickensiano. La pellicola è esteticamente e narrativamente tradizionale, ma senza sottrazione di quel fascino e incanto che racconti come questi sono tenuti a emanare. Interessante la descrizione dell’itinerario creativo, delle enormi difficoltà che ciascun autore, anche grande, si trova spesso di fronte, ogniqualvolta partorisce un’opera del proprio ingegno, per poterla donare al mondo.

Con La ruota delle meraviglie Woody Allen passa dalle atmosfere fumosamente retro’ di Café Society, nell’America hollywoodiana degli anni Trenta, alla concretezza, anche visiva, della zona intorno a Coney Island, a New York, negli anni Cinquanta. La grande ruota panoramica, “la ruota delle meraviglie”, appunto, fa da sfondo e da contraltare alla drammatica vicenda, in puro stile tennessiano, di Ginny (Kate Winslet), ex attrice insoddisfatta che, malamente, coltiva ancora velleità artistiche a dispetto del rovinoso matrimonio con Humpty (Jim Belushi), che le ha portato in dote un figlio adolescente piromane e, in tempi più recenti, Carolina (Juno Temple), temibile rivale per la sua amicizia amorosa con Mickey (Justin Timberlake), bagnino per caso ma uomo colto e sensibile. Sarà l’imprevisto, come spesso accade nelle pellicole alleniane, a decidere la sorte dei personaggi in scena, topolini ciechi follemente ruotanti su di una giostra impazzita. Il mago della luce italiano Vittorio Storaro esalta con i suoi riflessi accesi e i cromatismi intensi i volti dei protagonisti, specie quello di Ginny, una Winslet oramai attrice matura, in grado di calarsi appieno nel clima da tragedia annunciata della storia. Il sempiterno Woody, invece, continua con la solita, mirabile maestria, il mondo, l’esistenza, storie di uomini e di donne in fuga da se stessi e dagli altri, magie di incontri, luci abbaglianti di mondi lontani e vicini nel tempo e nello spazio.

Dal romanzo “Wonder” di R. J. Palacio lo scrittore-regista Stephen Chbosky (Noi siamo infinito) trae l’omonima storia di Auggie Pullman (Jacob Tremblay), un ragazzino di dieci anni con le passioni e i comportamenti della maggior parte dei suoi coetanei, ma anche con una grave malformazione cranio-facciale, per la quale si è sottoposto a ventisette operazioni chirurgiche, protetto da una famiglia che lo ha nascosto amorevolmente ad occhi estranei e diffidenti. Viene, però, anche per Auggie il momento in cui crescere, in cui affrontare da solo il mondo con la sua bellezza e ostilità, facendo a meno dell’aiuto costante di mamma Isabel (Julia Roberts) e papà Nate (Owen Wilson). In Wonder Chbosky racconta, con realismo ma senza compiacimenti narrativi o estetici, senza pietismi o sentimentalismi di sorta, il lungo, complesso, a tratti terribile percorso di Auggie alla scoperta del mondo, del rapporto con l’Altro, che il più delle volte lo considera e lo tratta come un essere appartenente ad una specie diversa e sconosciuta, da tenere il più lontano possibile. Bullismo, rigidità, stereotipi, conservatorismo, crudeltà: ma anche bellezza dell’incontro, superamento delle differenze, condivisione, coraggio. Ogni aspetto del viaggio complicato di Auggie verso l’adolescenza e poi la vita adulta ci viene mostrato nel film di Chbosky senza censure. Per fortuna. Una storia per riflettere, nel giorno in cui in molte parti del mondo si celebra la nascita di un bambino “diverso” da tutti, su quanto sia sottile il filo di quella presunta “normalità” che troppo spesso frappone una barriera tra noi e gli altri.

Un Augurio da chi scrive.

Barbara Rossi