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A tre anni dall’ultimo passaggio a Cannes con Il racconto dei racconti Matteo Garrone – l’autore di GomorraReality oramai non più solo una promessa ma una certezza acquisita per il nostro cinema – torna trionfalmente sulla Croisette con un film, Dogman, che riceve alla sua prima proiezione festivaliera ben dieci minuti di applausi, già osannato dalla critica e vincitore (è notizia fresca di ieri sera) del premio per il miglior attore. Garrone ricostruisce liberamente la vera storia di un efferato delitto – quello del pugile e criminale Giancarlo Ricci, avvenuto a Roma nel 1988 – e del suo protagonista, Pietro De Negri, ribattezzato “er canaro de la Magliana”. Marcello (uno straordinario Marcello Fonte, dal viso scavato ed esile, dall’espressità fuori del comune) è il mite proprietario di un modesto negozio di toelettatura per cani, che ama e accudisce teneramente: un uomo tranquillo con un solo altro grande amore, la figlia Alida (Alida Baldari Calabria), che tenta di sopravvivere in mezzo al degrado generale. La conoscenza che porterà Marcello fino in fondo al baratro sarà quella con Simone (un altrettanto superlativo Edoardo Pesce), ex pugile e piccolo criminale locale, taglieggiatore dei commercianti del luogo. Quando Simone supererà il limite, chiedendo a Marcello di diventare suo complice in una rapina, per “il canaro” si spalancheranno le porte di un inferno gratuito e non voluto, cui dovrà, anche contro se stesso e i suoi principi, porre rimedio. Matteo Garrone racconta (con i colori cupi e saturi della sua messinscena, grazie anche all’ottima fotografia di Nicolaj Bruel) la desolazione, l’abbruttimento, la totale perdita di umanità di un’intero mondo, in cui il riscatto finisce per passare, come se fosse una condizione sine qua non, dalla stessa violenza primigenia che ci si illude di stare combattendo. Il film è come una sorta di urlo silenzioso, affilato come un coltello. “Ho iniziato a lavorare alla sceneggiatura dodici anni fa”, ricorda il regista: “nel corso del tempo l’ho ripresa in mano tante volte, cercando di adattarla ai miei cambiamenti. Finalmente, un anno fa, l’incontro con il protagonista del film, Marcello Fonte, con la sua umanità, ha chiarito dentro di me come affrontare una materia così cupa e violenta, e il personaggio che volevo raccontare: un uomo che, nel tentativo di riscattarsi dopo una vita di umiliazioni, si illude di aver liberato non solo se stesso, ma anche il proprio quartiere e forse persino il mondo. Che invece rimane sempre uguale, e quasi indifferente”.

In questo fine settimana approda sugli schermi italiani anche Parigi a piedi nudi di Fiona Gordon e Dominique Abel: i due registi, l’una canadese, l’altro belga, già autori di opere lievi, con un tocco deliziosamente naïf, come L’Iceberg o La Fée (nelle quali si ispirano dichiaratamente allo stile e ai contenuti del cinema di Jacques Tati), dipingono con pennellate d’acquerello la storia di Fiona (Fiona Gordon), buffa e imbranata bibliotecaria canadese, che a seguito della ricezione di un’accorata lettera d’aiuto da parte della vecchia zia Martha (Emmanuelle Riva), che in Francia convive disperata con la paura di finire in un ospizio, si organizza per una spedizione salvifica, sbarcando a Parigi. Qui Fiona incontra Dom (Dominique Abel), eterno clochard seducente e dai modi gentili, che – innamoratosi di lei – la aiuterà a ritrovare Martha, nel frattempo misteriosamente scomparsa. Un grande piccolo film, tra commedia e dramma, ironia e sentimento, malinconia e speranza: una poetica riflessione sulla vita, l’amore, l’amicizia, sul tempo e sul fascino senza tempo di una città già immortalata da una vasta schiera di intellettuali, scrittori e cineasti. tra cui Victor Hugo e Jacques Rivette. Non ultimo, un ottimo motivo per vedere Parigi a piedi nudi è l’ultima, toccante ed appassionata interpretazione di Emmanuelle Riva, la grande interprete del cinema francese, da Hiroshima mon amour (1959) di Renais al più recente Amour (2012) di Haneke.

Barbara Rossi