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“Il racconto attraverso il tono dell’assurdo aiuta moltissimo ad interpretare la realtà”, spiega Paola Randi (Into Paradiso), regista di Tito e gli alieni, il suo secondo lungometraggio. “Mio padre è stato la scintilla e anche la guida nell’affrontare i temi del film: la perdita delle persone care e delle proprie memorie. Qualche anno fa colsi mio padre assorto davanti al ritratto di mia madre, una bella fotografia di lei sorridente appesa nella sua camera. La memoria di mio padre si stava progressivamente sciogliendo come neve al sole, mia madre era scomparsa da più di dieci anni e lui passava ore in contemplazione del suo viso. Quell’uomo con la sua irriducibile leggerezza e il suo spirito eccezionale mi ha permesso di immaginare un mondo attraverso i suoi occhi”. La Randi compie con questo film, a metà strada fra il racconto di fantascienza e quello filosofico-esistenziale, un’operazione coraggiosa, perché non è facile decidere di riportare sullo schermo un genere già pochissimo praticato dal cinema italiano e, parallelamente, di ambientare le riprese in mezzo al deserto del Nevada. Tito e gli alieni, presentato alla 35ª edizione del Torino Film Festival e vincitore al Bif&st 2018 del Premio Ettore Scola per il miglior regista (a Paola Randi) e del Premio Gabriele Ferzetti per il miglior attore protagonista (a Valerio Mastandrea), racconta, con qualche riferimento a Incontri ravvicinati del terzo tipoContact ed Arrival, una storia di sofferenza e solitudine, di sollievo e speranza, riflettendo con serena malinconia su aldiqua e aldilà attraverso il personaggio del Professore (Mastandrea), scienziato napoletano arroccato da anni nel suo osservatorio vicino alla fatidica Area 51, in Nevada: ufficialmente per portare a termine il suo lavoro di cercatore di segnali dallo spazio, per conto del governo americano, in realtà per difendersi dal dolore del non riuscire a percepire l’unica voce che, nell’etere, amerebbe disperatamente riascoltare, quella della moglie, morta anni prima. Un isolamento che non riesce a spezzare neppure Stella (Clèmence Poesy), assistente tuttofare e organizzatrice di matrimoni in stile alieno. Sarà, invece, paradossalmente, un nuovo dolore, quello per la scomparsa del fratello del Professore – vedovo a sua volta e padre di due figli, Anita (Chiara Stella Riccio) di sedici anni e Tito (Luca Esposito) di sette – a fungere da nuovo inizio, sorgente di nuove e impreviste possibilità di vita. Saranno Chiara e Tito, soprattutto, anche lui come lo zio desideroso di stabilire un contatto con chi non è più visibile, almeno agli occhi umani, a spingere il Professore silenzioso e disperato del bravissimo Valerio Mastandrea ad un’elaborazione del lutto dolorosa ma necessaria, nella consapevolezza che nulla è mai totalmente perduto. “Ero terrorizzata” – racconta la regista, ricordando il giorno dell’anteprima del film all’Agenzia spaziale italiana – “e invece alla fine del film un astrofisico è venuto da me e mi ha detto: ‘Lo sa che ha raccontato una mezza verità: il tempo non è lineare per cui esistono delle tracce di chi non c’è più, soltanto non possiamo recuperare questi dati’. Da sempre sono convinta che la scienza dia una chiave di lettura della realtà straordinaria, filosofica e esistenziale. Io ho una sorella scienziata, lei studia come comunicano le cellule fra loro e come migrano. Lei fa ricerca, io racconto storie, in qualche modo siamo su posizioni antitetiche. Mi piaceva raccontare l’elaborazione del lutto visto attraverso queste due posizioni, la sua più concreta e analitica incarnata dall’adolescente Anita e la mia, più vicina a quella di Tito. La mia è una fantascienza vintage che guarda a Kubrick, Spielberg, al Tarkovsky di Solaris. Il cinema è una forma di comunicazione intrinsecamente nostalgica, un film è acchiappare un’emozione e farla rivivere per sempre, è il luogo della memoria per eccellenza”.

Al cinema Macalle’ di Castelceriolo (Al) è in proiezione nel corso di questo fine settimana di giugno il film del regista inglese Andrew Haigh Charley Thompson, dal romanzo “La ballata di Charley Thompson” di Willy Vlautin. La pellicola, in concorso per l’attribuzione del Leone d’Oro al miglior film alla Mostra del Cinema di Venezia lo scorso anno, ha vinto il Premio Marcello Mastroianni (a Charlie Plummer nel ruolo di Charley, il protagonista). Charley Thompson sembra assurgere a simbolo dell’America, di ieri, di oggi, di sempre: adolescente con una madre sconosciuta e lontana, un padre sui generis, che ama circondarsi di donne e impegolarsi in storie senza futuro, si allontana da casa, Portland, Oregon, in compagnia di Lean on Pete, vecchio cavallo da corsa che ha visto giorni migliori e che riflette, nella sua zoppia, quella interiore del ragazzo, fragile e audace figlio di un Nuovo Mondo invecchiato anch’esso, troppo vasto nelle sue infinite piste geografiche e culturali, autoreferenziale, eccessivo. Charley Thompson, con il suo ritmo lento, i molti silenzi, i rari dialoghi, è molte cose: romanzo di formazione, racconto “on the road” kerouachiano, filosofica riflessione su senso della vita e destino, viaggio di esplorazione del pianeta americano, tra mito e storia. Piena di forza e di sensibilità l’interpretazione di Charlie Plummer, orfano di un’America grandiosa e sfatta, in fuga da casa sulla rotta di un’altra casa possibile, forte soltanto del cavallo che l’accompagna, del suo amore per lui. Ottimo anche Steve Buscemi nel ruolo di Del Montgomery, l’anziano allenatore di Lean on Pete.

Barbara Rossi