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L’ultimo weekend di febbraio ci porta al cinema con le ultime opere di due grandi autori, Paul Thomas Anderson e Sally Potter.

Il filo nascosto (da non sottovalutare nel film il riferimento del titolo originale, Phantom Thread), ultimo film di un maestro del cinema americano contemporaneo, Paul Thomas Anderson, cantore di un’America sconfinata e smarrita allo stesso tempo (vedi, a questo proposito, la bella monografia di Roberto Manassero “Paul Thomas Anderson, frammenti di un discorso americano, ed. Bietti, 2015), ci conduce nella Londra degli anni Cinquanta, nella casa del celebre sarto Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis). Reynolds è un uomo tanto affermato quanto irrisolto, tanto conosciuto, ricercato e apprezzato quanto contraddittorio, misogino e in perenne crisi con se stesso, in lotta non apparente con il proprio passato familiare (rappresentato da una figura materna in absentia piuttosto ingombrante, oltre che da una sorella – Cyril/Lesley Manville – fin troppo presente. La sua dimora, che è anche il suo luogo di lavoro, è attraversata da fili sottili e invisibili, nascosti come quelli che percorrono la trama delle preziose stoffe che Woodcock produce per l’high society inglese. Sono fili di nostalgia, rimpianto, ossessione, fragilità, ben mascherati sotto un cerimoniale rigido, inalterabile e magnificamente orchestrato. Una partitura che minaccia di andare avanti all’infinito, ma l’esistenza – come Anderson sa fin troppo bene e come gli è capitato di raccontare in modi e forme diverse nei suoi film, da The Master a Boogie Nights e Magnolia – è spesso imprevisto, sorpresa, inarrestabile deflagrazione: per questo, ne Il filo nascosto, arriva Alma (Vicky Krieps), impacciata cameriera, amante, musa, madre, moglie. Un amore impossibile, imprevedibile, anomalo, capace alla lunga di sovvertire le regole, anzi, ogni regola che Reynolds si è dato, pur con disturbo, fastidio, pena, nel caos calmo (fin troppo calmo) della sua patologica vita. Non c’è amore più lontano e, nello stesso tempo, altrettanto intenso di quello tra Alma e Reynolds; non c’è sentimento più ossessivo o disturbato o differenza (sociale, anagrafica, caratteriale) maggiore tra i due. Eppure…Il filo nascosto è, a livello stilistico, un’ouverture classica, elegante, raffinata, con qualche punto di fuga; efficace la rappresentazione della società londinese dell’epoca, con i suoi riti, manie e splendide decadenze. Meravigliosi gli interpreti, da Vicky Krieps a un Daniel Day-Lewis al suo secondo ruolo in un film di Anderson e, per sua stessa ammissione, al suo ultimo al cinema, sino a Lesley Manville (il film è candidato a sei premi Oscar). Per carpire la chiave profonda della pellicola, come quella dell’intera cinematografia di Paul Thomas Anderson, vale, più di tutte, l’analisi di Emanuela Martini: “A volte con fatica e dolore, a volte con tenerezza e titubanza, nel cinema di Paul Thomas Anderson non c’è solo tutta la complessità contraddittoria dell’essere americani oggi, oggi come negli anni Settanta (e, probabilmente, come nei decenni precedenti di John Ford), ma anche tutto il disorientamento di essere vivi oggi, ovunque, in un universo che ha perduto ogni solido punto di riferimento”.

Sally Potter, l’autrice di Orlando e The Man Who Cried – L’uomo che pianse, mette in quadro con The Party (presentato in concorso alla 67esima edizione del Festival di Berlino, dove gli è stato attribuito il Guild Film Prize) un colto, ironico e auto-ironico, feroce e splendido, nel lucore del bianco e nero, film da camera, bergmaniano e polanskiano (di quest’ultimo il riferimento più evidente è Carnage, mentre per l’Italia potremmo far riferimento a Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese) quanto basta, sulla crisi delle relazioni, delle certezze individuali e di un’Europa divisa tra opposti estremismi, senza più identità. In soffocante unità di tempo e luogo la storia è quella di Janet (Kristin Scott-Thomas) e Bill (Timothy Spall), coppia di successo (lui intellettuale in carriera, lei appena promossa a ministro della salute nel governo ombra dei laburisti), in procinto di festeggiare con altre tre coppie di amici, liberal-chic e apparentemente anticonformisti, proprio l’avanzamento di carriera di Janet. Poche, innocenti, terribili rivelazioni di Bill, del tutto inattese, basteranno, però, a scatenare il conflitto, l’aggressività, il gioco al massacro. The Party ha un impianto prettamente teatrale, e forse questo è un suo limite: ma è molto efficace nella denuncia spietata di classe, nella vivisezione di sentimenti, pensieri, inconfessate realtà dietro la maschera di democratico perbenismo. Superlativo Bruno Ganz nel ruolo di Gottfried, bizzarro cultore teutonico di discipline naturali.

Barbara Rossi