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«Il punto non è la condanna, sono le vittime e la loro storia». E’ questo uno degli assunti fondamentali dell’opera prima dell’italo-tedesco Giulio Ricciarelli – candidata all’Oscar della Germania come miglior film straniero – veicolato attraverso le parole del procuratore generale Fritz Bauer (la leggenda del teatro tedesco Gert Voss, recentemente scomparso).

La pellicola, la cui storia prende l’avvio nel 1958, in una Germania operosa, alla ricerca del benessere sociale e totalmente immemore della tragedia della Shoah, racconta con rigore narrativo e stilistico un accadimento reale, l’accanita lotta di tre pubblici ministeri (qui condensati nella figura del giovane avvocato Johann Radmann-Alexander Fehling) per portare all’attenzione di un’opinione pubblica assopita i crimini perpetrati dai nazisti, non solo i gerarchi, ma anche tutta l’enorme massa dei sottoposti, che rifiutarono la responsabilità dei loro atti con la scusa pretestuosa di essere stati dei semplici esecutori di ordini altrui.

Un immane lavoro d’archivio, disseppellendo atti giudiziari, resoconti, cronache archiviati in fascicoli polverosi, ma anche una corsa contro il tempo, una caccia all’uomo internazionale per scongiurare la fuga di Mengele e Eichmann, i principali imputati, e una dolorosa esplorazione sul campo, nella registrazione delle testimonianze dei sopravvissuti come di coloro che ad Auschwitz prestarono, più o meno consapevolmente, servizio.

In questo autentico “labirinto del silenzio”, dove l’omertà predomina colpevolmente anche tra le fila di coloro – procuratori, avvocati – preposti all’accertamento della verità, Radmann affronterà un vero e proprio percorso di formazione e maturazione personale, costretto a fare i conti con il proprio passato nazionale e familiare, supportato soltanto dal procuratore Bauer e dal giornalista Thomas Gnielka-André Szymanski (non personaggi fittizi, ma autentici protagonisti di quel che accadde).

I temi delle colpe dei padri, dell’accettazione-superamento del proprio vissuto, per quanto terribile esso sia, del ruolo e dei limiti della memoria, della “banalità del male”, sono emersi con maggiore frequenza nel cinema tedesco degli ultimi decenni (pensiamo a un film come Chi, se non noi?, di Andreas Veiel, 2011, in cui il pesante fardello dell’eredità parentale viene posto in diretta connessione con la nascita dell’esperienza terroristica della Banda Baader-Meinhof, ma anche a Hannah Arendt della Von Trotta, 2012).

Il labirinto del silenzio è un film coraggioso, onesto, un legal drama ispirato da uno degli eventi più tragici del 900’, le cui uniche pecche possono essere rappresentate dall’eccesso di sintesi, come, a tratti, da uno stile narrativo che ricorda un po’ troppo quello patinato delle fiction televisive.

Molto efficaci e intense le scene dei colloqui del giovane procuratore con vittime e carnefici, la cui tragica essenza è restituita dai primi piani su volti e sguardi.

Uscito nelle sale italiane in prossimità della Giornata della Memoria, Il labirinto del silenzio vale soprattutto a ricordare, specie alle giovani generazioni, che – come afferma il procuratore Bauer – «tutti quelli che hanno collaborato, tutti quelli che non hanno mai detto no, sono Auschwitz».

Barbara Rossi

Di Fausta Dal Monte

Giornalista professionista dal 1994, amante dei viaggi. "La mia casa è il mondo"

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