Proseguono i tumulti in Iran. La protesta sociale nata dalla morte di Mahsa Amini, giovane martire laica, icona tristemente involontaria della libertà civile, scuote nel profondo i rigide pilastri della Repubblica Islamica. Alla guida della rivolta, le donne, che la storica condizione di soprusi, vessazioni e discriminazione ha reso voce degli ultimi e coraggio degli oppressi.  A loro fianco anche gli studenti delle Università, pronti a intonare slogan, organizzare sit- in e scendere in piazza per rivendicare, contro la repressione del regime degli ayatollah, la legittimità dei propri diritti. Dalla facoltà di ingegneria Amirkabir, nella capitale, alle regioni del nord, le istituzioni del paese sono in fermento e con loro vari settori della società iraniana.

Un popolo unito per le strade dell’Iran.

Dalla borghesia al proletariato, il popolo unito è sceso in piazza accanto alle donne, promotrici della rivolta, per chiedere al regime di Teheran la modernizzazione sociale del Paese, il riconoscimento dei diritti civili a tutti, donne comprese, la smobilitazione della polizia religiosa e garanzie che, casi come quello di Mahsa Amini, non possano più ripetersi. La protesta è popolare e collettiva, tanto che, alle rivendicazioni di genere si uniscono le pretese dei lavoratori, le richieste dei cittadini comuni e le rivendicazioni del popolo curdo, a lungo vessato dalle autorità sciite. La partecipazione dei lavoratori degli impianti petroliferi, settore di punta nell’economia iraniana, preoccupa non poco Teheran, memore del peso politico e sociale che gli operai dei siti del greggio conservano. Da ricordare, infatti, la mobilitazione degli operai avvenuta, nel 1978, la quale contribuì non poco alla cacciata dello scià. Una forza sociale, quindi, avvertita come pericolosamente sediziosa. Secondo il “Council of Oil Contract Workers, oltre 4000 lavoratori hanno interrotto il proprio lavoro per aderire allo sciopero, sostenuto politicamente dai partiti curdi e dagli attivisti democratici.

Teheran, fra menzogne e violenze.

Mentre la Francia invita i propri cittadini a lasciare il paese – dopo gli ambigui arresti di nove cittadini europei, provenienti da Francia, Italia, Germania, Polonia, Paesi Bassi e Svezia – il governo di Teheran accusa le «potenze straniere» di fomentare le rivolte, schierando l’esercito al confine occidentale, dicendosi pronta ad intervenire contro i campi profughi della resistenza anti-ayatollah presenti nel vicino Iraq. Le forze dell’ordine, dal canto loro, ancora una volta si dimostrano incapaci nel gestire la situazione ripiegando su una inadeguata e brutale strategia autocratica costituita da menzogne e violenze. Infatti, se da un lato la responsabilità della morte di Mahsa Amini continua ad essere negata dal governo, ascritta goffamente ad una presunta malattia pregressa della giovane, dall’altro lato, la risposta ai tumulti è affidata alla mera forza bruta: «Per sedare le proteste usano anche autobus del servizio urbano e ieri hanno aperto il fuoco contro i dimostranti» riferisce una giovane della capitale. Secondo gli attivisti i morti, dall’inizio dei tumulti, sono 185, cifra destinata drammaticamente a salire.  Nemmeno i bambini e gli adolescenti sono al sicuro. 19 infatti i minori uccisi dalla repressione della polizia, chiamata a sedare i tumulti con ferocia. «Proteggere tutti i bambini da ogni forma di violenza e pericolo, anche durante conflitti o eventi politici. – chiede l’UNICEF tramite un comunicato – La violenza contro i bambini, da parte di chiunque e in qualsiasi contesto, è indifendibile».

Il coraggio delle donne, la paura del regime.

Morte al dittatore, è il grido che intonano le manifestanti e i rivoltosi scesi per strada a Teheran, ad Ardebil, nell’Azerbaigian iraniano, a Gilan, a Mazandaran e in tutte le regioni del Paese. L’hijab, simbolo di oppressione è sventolato dalle audaci mani delle rivoltose e l’effige del presidente, Ebrahim Raisi, è tolta dalle scuola, deposta dagli uffici e derisa dai manifestanti. Per quanto la violenza rimanga la principale prerogativa del regime, a tremare, stavolta, sono gli oppressori; volti pallidi di fronte alle sommosse popolari che non sono stati in grado di gestire, queste, risultato sconsiderato di una rigida politica autocratica la cui la pressione esercitata ha scatenato l’ira del popolo, fardello per i governi che da esso non traggono la propria legittimità. Dal dispotico Iran arriva pertanto un insegnamento che periodicamente la Storia impone e che i governi cercano invano di dimenticare. Il potere è del popolo e da esso le autorità dipendono, mai il contrario. Lezione che il mondo intero farebbero bene a non dimenticare e a ripassare, tanto più che oggi molte democrazie, assediate da autocrazie esterne e macerate internamente da demagogia a buon mercato, non godono più di ottima salute.

 

Daniele De Camillis

Di Fausta Dal Monte

Giornalista professionista dal 1994, amante dei viaggi. "La mia casa è il mondo"

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