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A Pasqua, fra uno scampolo di sole e uno scroscio di pioggia, la sala cinematografica è ancora un ottimo luogo per trascorrere qualche ora tra svago e riflessione.

In questo weekend festivo esce sul grande schermo Tonya di Craig Gillespie, regista australiano di provenienza pubblicitaria, autore de L’ultima tempesta: la storia raccontata è quella, autentica, di Tonya Harding (Margot Robbie), la discussa e controversa ma grandissima pattinatrice americana divenuta famosa non solo per il suo incredibile talento ma anche per essersi resa protagonista, poco prima delle Olimpiadi del 1994, di un’aggressione indiretta a una sua temibile rivale sportiva, Nancy Kerrigan. Il film ricostruisce la vita della Harding dalla prima infanzia alla piena maturità, gli anni difficili di bambina, i problemi di salute (le crisi d’asma), la dipendenza dal fumo. Al di là dell’increscioso episodio per cui venne messa alla gogna dalla comunità atletica internazionale, la pellicola – candidata a tre premi Oscar e vincitrice di una sola statuetta (a Allison Janney nel ruolo di LaVona, madre di Tonya) per la migliore attrice non protagonista – cerca di porre in evidenza la complessa personalità della pattinatrice, il carattere imperioso e fragile, i vizi, le virtù, l’alquanto macchiettistico teatrino familiare che le ruota intorno, da LaVona al marito Jeff (Sebastian Stan) in primis. Uno spaccato sociale, di un certo mondo agonistico, di una certa America ambiziosamente contraddittoria, che continuamente crea e distrugge i propri miti.

Mario Cavallaro (Antonio Albanese, anche regista e sceneggiatore del suo quarto film) è una neppure troppo atipica espressione di milanese cinematografico (pensiamo ai tipi da commedia proposti negli anni dal trio Aldo, Giovanni e Giacomo): misantropo, un po’ nevrotico, abitudinario, piuttosto rigido e conservatore in pensieri e opere. La sua unica passione è coltivare l’orto, sul terrazzo del condominio in cui vive: il suo lavoro, il venditore di calze. L’imprevisto, e insieme l’occasione per un cambiamento, arriva come una doccia gelata, una folata di vento fastidiosa e imprevista, nella persona di Oba (Alex Fondja), giovane ambulante senegalese (anche lui commerciante di calze, ma più scadenti e meno costose), e di sua sorella Dalida (Aude Legastelois). L’inizio della conoscenza e relativa convivenza sarà un vero e proprio, scoppiettante percorso a ostacoli, tra odore di zolfo e colpi bassi soprattutto da parte di Mario, che tenterà un improbabile viaggio verso il Senegal, per restituire al mittente il rivale, il “diverso”, l’altro da sè. In Contromano Albanese cela (ma non troppo) nelle pieghe del genere che gli è più congeniale, la commedia leggera, la tematica terribilmente seria dell’integrazione fra nativi di un luogo e migranti, dell’accettazione dello straniero, del superamento dei pregiudizi e delle diffidenze. Non un film eccezionale, piuttosto dignitoso, divertente quanto basta e con un ottimo proposito di fondo, quello di far riflettere senza angosce su di un argomento di estrema, quotidiana attualità.

Al cinema Macalle’ di Castelceriolo viene proposta la visione del film – vincitore di tre premi César  – Petit paysan – un eroe singolare, opera prima del giovane regista francese Hubert Charuel. Figlio di allevatori, Charuel è mosso anche da un intento parzialmente autobiografico quando decide di raccontare lo scompiglio e la tragedia degli allevatori in lotta per la sopravvivenza dei loro capi di bestiame di fronte all’irrompere di un morbo letale simile a quello ribattezzato, negli anni Ottanta del secolo scorso, della “mucca pazza”. La storia è vista e narrata attraverso gli occhi di Pierre (Swann Arlaud), trentenne produttore di latte, letteralmente “innamorato” delle proprie mucche, che circolano liberamente per casa sua. Un amore forse “interessato”, dal momento che le mucche costituscono la principale fonte di sostentamento per Pierre, eppure, nelle conseguenze, autentico e vitale, tanto da portarlo a contrapporsi con forza alla sorella Pascale (Sara Giraudeau), medico veterinario ben consapevole delle necessità e regole sanitarie da soddisfare. Girato nella fattoria a Reims dei genitori di Charuel, con l’uso di abitanti del luogo mischiati ad attori professionisti, Petit paysan – un eroe singolare compone un affresco sia privato che collettivo, sociale, con una buona descrizione dei diversi tipi e caratteri che animano, a volte bizzarramente, la provincia francese, cui il cinema d’oltralpe negli ultimi anni ha dedicato particolare attenzione (vedi, oltre agli innumerevoli film, anche l’originale serie televisiva P’tit Quinquin, a firma di Bruno Dumont). Un’opera efficace, con ancora qualche momento di incertezza, qualche sfasatura stilistica e narrativa, ma apprezzabile, impegnata.

Barbara Rossi