dialessandria.it - no photo
dialessandria.it - no photo

Questo weekend cinematografico di Ognissanti è particolarmente adatto per un’immersione nel genere horror più crudo, così come nelle atmosfere ambigue, glaciali e fumose di Quello che non uccide del regista uruguaiano Fede Álvarez, il nuovo episodio della saga di Millennium, sequel di Uomini che odiano le donne (2011) e trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo scritto da David Lagercrantz a proseguo del ciclo iniziato creato da Stieg Larsson. Dopo La ragazza che giocava con il fuocoLa regina dei castelli di carta e il remake di David Fincher Millennium – Uomini che odiano le donne (oltre a una serie televisiva), tornano le avventure di Lisbeth Salander (Claire Foy, che eredita il ruolo da Noomi Rapace e Rooney Mara), questa volta alle prese con il periglioso recupero di un programma informatico, ideato dallo scienziato Frans Balder (Stephen Merchant), che minaccia di far saltare in aria il mondo. Non mancano, ovviamente, i cattivi di turno, gli Spiders, criminali informatici animati dalla fondata intenzione di rapire il figlio di Balder e impossessarsi del programma. Mentre è impegnata a schivare attacchi letali  e a fuggire, Lisbeth incontra di nuovo sul suo cammino Mikael Blomkvist (Sverrir Gudnason), il giornalista d’assalto di “Millennium” e si trova anche a fare i conti con una truce figura sbucata fuori dal passato: sua sorella Camilla (Sylvia Hoeks), creduta morta, anche lei abusata dal padre e trasformatasi in uno spietato killer. Il film di Álvarez ha un buon ritmo generale: è avvincente, appassionante senza ombra di dubbio, per gli appassionati del genere e della saga: Claire Foy è una degna erede delle due interpreti precedenti, in grado di mettere in campo una recitazione giocata su di un doppio registro, quello meramente seduttivo e quello più muscolare e aggressivo. Non mancano le sorprese, i colpi di scena, l’action dura e pura, eppure tutto questo non basta. Il plot è debole, manca di mordente, alcune soluzioni narrative non convincono, il registro generale è piatto: soprattutto non si crea la necessaria empatia – anche meramente fisica – tra i due protagonisti principali, Lisbeth/Foy e Mikael/Gudnason. Un indubbio deterrente, per una pellicola che in via teorica avrebbe avuto buone possibilità, fornite anche dal retroterra romanzesco alle spalle.

A quarant’anni dall’horror cult di John Carpenter (1978), si affacciano sul grande schermo sia la versione originale che il remake-reboot a firma di David Gordon Green (George Washington, Strafumati, Joe), che da grande appassionato della saga e, specialmente, del suo punto di origine, sceglie di rinfondarla ripartendo dall’inizio, ovvero dalla conclusione del primigenio Halloween (con dichiarati saluti alle nove successive versioni, comprese quelle – molto criticate dallo stesso Carpenter – di Rob Zombie.  A Haddonfield nell’Illinois (la città natale della sceneggiatrice Debra Hill), quarant’anni dopo i tragici e mortiferi eventi legati alla strage della notte di Halloween compiuta dallo psicopatico Michael Meyers, ora internato in manicomio, pare sia rimasta soltanto una Laurie Strode ancora decisamente traumatizzata dalla portata sconvolgente del vissuto affrontato. Ora madre e, addirittura, nonna di una deliziosa adolescente, Allyson (Andi Matichak), Laurie non riesce a liberarsi dai terribili fantasmi del passato e vive in un rifugio blindatissimo, proibito ai più, in attesa dello scontro finale con Michael. Resa dei conti che puntualmente arriverà, quando, proprio alla vigilia della notte di Halloween, il folle Meyers – incarnazione del Maligno – riuscirà a eludere la sorveglianza e a fuggire, nel corso del suo trasferimento in una nuova struttura carceraria. Il nuovo Halloween non è, per forza di cose (il suo autore, in primo luogo) all’altezza dell’originale: nonostante la supervisione di Carpenter stesso e la sua rielaborazione della vecchia colonna sonora, qualche scena efferata e molto citazionismo non bastano a risatrutturare con rinnovata incisività una storia che rimane comunque emblematica per i risvolti simbolici dell’assunto. La piccola America di provincia, puritana e bigotta, tira fuori dall’armadio la sua violenza repressa, il conservatorismo estremo, gli orchi senza volto che si aggirano tra le eleganti dimore residenziali e le casette in stile  finto rustico, per seminare terrore e morte. L’istituzione familiare è quella più bersagliata già nell’Halloween originario, come nido di veleni e pazzia. Lo scontro finale tra l’Uomo Nero e la ex final girl, risolto in fuoco, fiamme e puzza di zolfo, lascia presagire futuri sviluppi, mentre la vita o la morte diventano una partita tripla, trasmessa in eredità da Laurie, diventata temibile quasi quanto Michael, a figlia e nipote. Insomma, si tratta di un affare di donne, per lo più, mentre i pochi maschi presenti vengono subitamente ridotti al silenzio. Jamie Lee Curtis funziona appieno, a distanza di anni, come punto focale e raccordo narrativo, per mezzo di una recitazione dolente, di rabbia trattenuta e disincanto. Meno convincente Haluk Bilginer nei panni dello psichaitra Ranbir Sartain, poco convincente allievo del predecessore Sam Loomis interpretato da Donald Pleasence. Dietro la maschera luciferina di Michael Meyers, invece, il sempiterno Nick Castle, assistente sul set del primo Halloween, poi scritturato per garantire la giusta fisicità al terrificante “boogeyman”, fra gli incubi peggiori partoriti dal cinema in salsa horror.

Barbara Rossi