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Il fine settimana che ricorda e commemora l’Olocausto propone al cinema due film italiani densi di emozioni e, appunto, memoria di ciò che è stato, insieme all’istintivo ed irrefrenabile bisogno di andare oltre, di trovare nuovi modi di vita.

Con Chiamami col tuo nome Luca Guadagnino conclude la cosiddetta “trilogia del desiderio”, dopo Io sono l’amore e A Bigger Splash. La sceneggiatura del film è scritta in collaborazione con Walter Fasano e un maestro del cinema europeo, James Ivory, dall’omonimo romanzo di André Aciman. Presentato in anteprima mondiale al Sundance Film Festival, Chiamami col tuo nome ha ottenuto tre candidature al Golden Globe e quattro all’Oscar, per il miglior film, miglior attore (Thimothée Chalamet nel ruolo di Elio Perlman), miglior sceneggiatura non originale, miglior canzone. Nell’estate del 1983, tra Bergamo e Brescia, Elio Perlman, diciassettenne italo-americano con ascendenze ebraiche, trascorre il suo tempo nell’antica villa dei genitori. L’incontro con Oliver (Harmie Hammer), giovane dottorando del padre, docente universitario, lo porterà a crescere, mettendo in discussione l’intero universo dei suoi affetti e la sua stessa vita. Guadagnino affronta e pare chiudere il discorso (o aprirlo verso ulteriori orizzonti) sul desiderio come fisicità, volto, voce, corpo, oggetto e soggetto amoroso. In un film dalla bellezza estetizzante, dalle ambientazioni classicheggianti, dalle atmosfere assolate, ardenti come la passione che si innesca tra i due giovani protagonisti, ogni parola, dialogo, silenzio, rumore concorrono a restituire l’autenticità di un sentimento allo stato nascente, all’interno di quella bolla fragile ed evanescente che è l’adolescenza, la prima giovinezza. Lo stile di regia è attento ma leggero e delicato, rohmeriano.

Made in Italy è il terzo film scritto e diretto dal cantautore Luciano Ligabue, ispirato all’omonimo concept album in cui è già presente il personaggio protagonista del film, Riko (Stefano Accorsi), alter ego del regista: “una delle vite che avrei potuto fare io se non fossi diventato un cantante”. Riko vive e lavora a Reggio Emilia, come operaio in un salumificio. E’ fondamentalmente un brav’uomo, serio, onesto, senza troppi grilli per la testa, con una moglie, Sara (Kasia Smutniak), che fa la parrucchiera e un figlio ormai quasi adulto, alle soglie dell’università. Riko conduce una vita tranquilla, come molti, e assolutamente precaria, come la maggior parte degli uomini e delle donne della sua generazione: fatta di alti e bassi, di fatiche quotidiane per raggiungere quel poco e poi riperderlo per via delle misteriose evoluzioni del destino, oltre che dell’incertezza e crisi in cui versa la società cui appartiene. La vita rimette sempre tutto in discussione, ma Riko, all’ennesimo colpo della sorte, decide di non rimanere passivo, di reagire e lottare ancora, per un futuro migliore. Il regista Ligabue costruisce una storia di speranza e redenzione, di quotidianità e passione (intesa come sofferenza), di volontà e speranza, memoria e sogno: film intimista, con qualche banalità narrativa, ma sincero, nel mettere in scena un uomo e la sua storia, la grande bellezza del consueto.

Barbara Rossi