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Un Pinocchio diverso dal solito e dalle versioni precedenti (a partire da quella disneyana del 1940, passando, poi, per lo sceneggiato televisivo omonimo in sei puntate di Luigi Comencini, 1972, e l’incantato Pinocchio di Roberto Benigni, 2002), quello del regista romano Matteo Garrone, noto per aver realizzato, nell’ultimo decennio, alcune fra le pellicole di maggior rilievo del panorama cinematografico italiano, da Gomorra (2008) a Il racconto dei racconti (2015) e Dogman (2018). Qui Garrone si dedica, insieme allo sceneggiatore e attore Matteo Ceccherini, con grande perizia e rigore filologico alla trasposizione della favola morale originaria, ideata nel lontano 1883 da Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino: non una storia soltanto per bambini, dunque, come nelle intenzioni dello scrittore e giornalista toscano, ma un chiarissimo exemplum che doveva servire da monito per la collettività tutta, adombrata nelle tragicomiche avventure del famoso burattino di legno. Senza l’ausilio di effetti speciali o digitali, per mezzo del trucco di scena dell’inglese Mark Coulier, vincitore di due Oscar – per The Iron Lady di Phyllida Lloyd  (2011) e Grand Budapest Hotel di Wes Anderson (2014) – sulla base dei personaggi disegnati dal nipote di Ettore Scola, Pietro Scola Di Mambro, il regista cala lo spettatore nell’atmosfera, a tratti cupa, del romanzo ottocentesco, popolata di creature grottesche e personaggi antropomorfi. La fotografia di Nicolaj Brüel (vincitore nel 2019 del David di Donatello per Dogman) e le musiche del premio Oscar Dario Marianelli concorrono a perfezionare il quadro d’insieme. Tutti bravissimi gli attori, dal giovane protagonista Federico Ielapi (otto anni, ma già con una solida carriera alle spalle: ha recitato in Quo vado? di Checco Zalone, I moschettieri del re di Giovanni Veronesi e nella serie tv Don Matteo) a Roberto Benigni nei panni del dolente e umano Geppetto,  per arrivare a Gigi Proietti-Mangiafuoco, Marine Vacht-la Fata Turchina, Massimo Ceccherini-la Volpe, Rocco Papaleo-il Gatto. Pinocchio di Garrone punta molto sulla fedeltà all’originale e sulla resa estetica, per conquistare il favore del pubblico anche laddove la dimensione incantata della favola, quella che più cattura l’interesse dei giovani spettatori, viene a mancare.

Ritorna, a due anni di distanza dal controverso Napoli velata, il regista turco Ferzan Özpetek, con un film – La dea fortuna – in cui ritorna a esplorare con sguardo affettuoso e impietoso insieme la realtà dei rapporti affettivi e familiari. Alessandro (Edoardo Leo) e Arturo (Stefano Accorsi) sono una coppia di fatto da moltissimo tempo, ma la loro relazione, fiaccata dall’abitudine e dalle necessità del quotidiano, è ormai alle corde. L’imprevisto arriva nella persona di Annamaria (Jasmine Trinca), ex compagna di Alessandro e madre di due bambini, costretta dal sospetto di una grave malattia ad affidare i figli alla coppia di amici in crisi. Per Alessandro e Arturo l’evento imprevisto sarà la nascita di una nuova prospettiva sul mondo. Özpetek, in questa sua pellicola un po’ almodovariana, pittoresca e colorita – com’è suo solito – ma anche di una profonda e disperante malinconia, affronta di nuovo i temi del vivere insieme, della socialità, della passione bruciante che passa e che va, dei sentimenti meno epidermici che, invece, durano all’infinito. Di classe e affiatato il cast dei giovani attori e delle vecchie conoscenze del regista, tutti insieme appassionatamente (e molto piacevolmente per lo spettatore).

Barbara Rossi