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Aveva una bellezza fresca, sbarazzina, la milanese Lucia Bosè (nata Borloni), nel film di Luciano Emmer Le ragazze di Piazza di Spagna (1952), già espressione del cosiddetto “Neorealismo rosa”, estrema diluizione in chiave di commedia dell’esperienza neorealista. Nel ruolo di Marisa, la sartina che sogna la carriera di modella, si rispecchia un dato biografico non trascurabile della giovane attrice e, insieme, la prefigurazione di quella che sarà la sua parabola artistica.

Non a caso, appunto, la Bosè viene notata a soli sedici anni, mentre lavora come commessa in una pasticceria, da Michelangelo Antonioni, che la dirigerà in Cronaca di un amore (1950) e La signora senza camelie (1953), trasformandola – attraverso i personaggi femminili di Paola Molon e, ancor più, di Clara Manni, attrice perseguitata dalla discrasia tra il facile successo popolare da lei conquistato e l’aspirazione a ruoli più alti – da ingenua esordiente a vera e propria diva dal fascino malinconico.

Nasce il 28 gennaio 1931, Lucia, da una famiglia modesta e severa, che inizialmente osteggia i suoi desideri, impedendole di accettare la parte della mondina in Riso amaro di Giuseppe De Santis, pur avendo vinto il relativo provino. La ragazza tuttavia, non si perde d’animo, riuscendo a sbaragliare concorrenti come Gianna Canale, Gina Lollobrigida, Silvana Mangano ed Eleonora Rossi Drago al concorso di Miss Italia, nel 1947.

Da allora per la non “maggiorata” Lucia Bosè si aprono le porte di Cinecittà, che proprio in quegli anni contribuisce all’avvio di un nuovo tipo di divismo al femminile, incarnato dalle reginette dei concorsi di bellezza.

È l’Italia che riprende slancio, anche al cinema, attraverso visi e corpi di donna, floridi e sensuali o acerbi e sbarazzini. «Lei ha una faccia interessante, sembra un animale cinematografico», le dice Antonioni non appena la incontra, e la propone al collega De Santis, con il quale esordisce nel 1950 in Non c’è pace tra gli ulivi, nei panni della ciociara Lucia, insieme a Raf Vallone.

Due anni più tardi, nel 1952, la Bosè lavora ancora con De Santis in Roma ore 11 – altra pellicola di ispirazione e ambientazione neorealista tratta da un fatto di cronaca – in cui interpreta Simona.

In seguito arrivano le commedie sentimentali come È l’amor che mi rovina di Mario Soldati (1951) e Era lei che lo voleva! di Marino Girolami e Simonelli (1953), entrambe con Walter Chiari; oltre ai film per la regia di Luciano Emmer, da Parigi è sempre Parigi, con Marcello Mastroianni (1951) al già citato Le ragazze di Piazza di Spagna.

A metà anni Cinquanta tutto cambia, sia a livello artistico che privato, per la già affermata attrice, la cui carriera si apre a collaborazioni internazionali: ne sono esempi la commedia Vacanze d’amore di Jean-Paul Le Chanois con Walter Chiari e Delia Scala (1955) e – dello stesso anno – Gli egoisti di Juan Antonio Bardem. In Italia, invece, il 1955 la vede protagonista con Jean-Pierre Mocky del film d’esordio di Citto Maselli, dove interpreta l’operaia Lucia, sfollata durante la Resistenza.

Quell’anno, sul set de Gli egoisti, la Bosè incontra il famoso e affascinante torero Luis Miguel Dominguín, con il quale si trasferisce in Spagna, privilegiando per un lungo periodo la vita familiare al cinema (uniche eccezioni: il film di Luis Buñuel Gli amanti di domani, 1956, e quello di Jean Cocteau, Il testamento di Orfeo, 1960, che le varrà l’amicizia con Pablo Picasso, conosciuto sul set).

Soltanto nel 1968 – dopo il divorzio da Dominguín – la diva riprende la carriera artistica, con l’opera prima di Pedro Portabella Nocturno 29, mentre nel 1969 è Glaia, la moglie di Renno (Gian Maria Volonté), in Sotto il segno dello scorpione, quarto lavoro dei fratelli Taviani. Il medesimo anno partecipa anche al Fellini Satyricon, nelle vesti di una matrona romana, e nel 1971 accetta l’invito della regista Liliana Cavani a interpretare Anna, ricoverata da vent’anni in manicomio perché sofferente di crisi maniaco-depressive, nel film L’ospite.  

Segue il sodalizio con Mauro Bolognini: il Metello (1970), Per le antiche scale (1975), da Mario Tobino, e La Certosa di Parma (sceneggiato televisivo in sei puntate, 1982).

Con l’arrivo degli anni Ottanta Lucia Bosè si ritira progressivamente dalle scene: altri sono i suoi interessi, anche di natura spirituale, come l’apertura – a lungo perseguita – di un museo dedicato alle figure angeliche, che ospita a partire dal 2000 opere di artisti internazionali, con sede in una fabbrica abbandonata a Turégano, vicino Segovia.

Le ultime apparizioni cinematografiche della Bosé sono in Cronache di una morte annunciata di Francesco Rosi (1987), Harem Suare di Ferzan Özpetek (1999), I Viceré di Roberto Faenza (2007),  One More Time di Pablo Benedetti e  Davide Sordella (2014), oltre che nella terza stagione della fiction Capri (2010).

Ha incarnato una femminilità giovane e spensierata, ma anche raffinata e – a tratti – ambigua, sospesa come tutto il cinema della contemporaneità fra naturalezza e rappresentazione.

«Cos’era per me il cinema?», si domandava non senza un pizzico di ironia. «Se ci penso mi chiedo: perché l’ho fatto? Non avrei voluto, mi ci sono trovata e l’ho fatto con grande rispetto. Il primo giorno dissi alla macchina da presa: “Ti darò il cinquanta per cento, il resto me lo tengo”. Non mi sono mai sentita diva, divina invece sì».

Barbara Rossi