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In questo weekend cinematografico di fine aprile, alle soglie della Festa dei lavoratori, due film molto diversi fra loro ma accomunati da un messaggio sociale non banale, ci raccontano derive e complessità di una realtà globalizzata sempre più lontana dal cosiddetto “fattore umano”.

Il settantottennne regista canadese Denys Arcand chude con La caduta dell’impero americano, una trilogia iniziata nel 1986 con Il declino dell’impero americano e portata avanti nel 2003 da Le invasioni barbariche, Premio César per il miglior film, David di Donatello per il miglior film straniero e Oscar al miglior film straniero. Pierre-Paul (Alexandre Landry) ha 36 anni, un dottorato in filosofia e, come molti della sua generazione (ma non solo della sua) per arrivare a fine mese è costretto a lavorare come fattorino. Un giorno, finito involontariamente sulla scena di una rapina non andata a segno, si trova di fronte a un arduo dilemma: trafugare il malloppo, risolvendo, così (almeno in apparenza) tutti i suoi problemi o rinunciare per onestà morale e intellettuale? Sulle sue tracce, intanto, c’è mezza città di Montreal: due agenti della polizia, le bande criminali più feroci. Per uscire dai guai Pierre-Paul dovrà affidarsi agli improbabili consigli di un ex galeotto diventato esperto di finanza internazionale (Remy Girard) e della prostituta Aspasie-Camille (Maripier Morin). Tra commedia farsesca e dramma Arcand conclude il suo discorso sulla corruzione della società contemporanea, totalmente sottomessa al dio denaro, caotica prima di tutto per vocazione interiore. La scomparsa di un’eticità di fondo, di quelli che in un tempo lontano erano noti come “valori” condivisi, fa scendere rapidamente la china dell’abiezione anche a personaggi come Pierre-Paul, fondamentalmente positivi. Lo stile di regia ha una grande eleganza, non trascura mai l’intento narrativo e il dialogo trasparente con lo spettatore. Il substrato del discorso è, ovviamente, tragico e senza vie d’uscita.

Il regista francese – classe 1983 – Louis-Julien Petit mette al centro della scena, restituendo loro la visibilità perduta (o mai posseduta), quattro donne (tutte attrici non professioniste, tutelate attraverso l’uso di soprannomi che fanno riferimento a donne celebri della cronaca e della cultura contemporanee – da Lady D a Édith Piaf, a Brigitte Macron e Beyoncé  – con l’obiettivo di preservarne la privacy) senza fissa dimora, Le invisibili, appunto. Il film, terzo lungometraggio del regista dopo Discount e Carole Matthieu – in cui vengono sviscerate problematiche legate al mondo del lavoro – campione d’incassi ai botteghini francesi, associa a ciascun personaggio femminile “invisibile” il suo corrispettivo, la figura di un’assistente sociale nella maggior parte dei casi altrettanto sconosciuta e incompresa per ciò che fa. La battaglia è comune: a Parigi, dopo la chiusura del centro diurno di accoglienza Envol, questo agguerrito e problematico gruppo di donne deve trovare solidarietà e forza per un ricollocamento nel tessuto sociale che permetta alle “invisibili” di vivere decorosamente e poter costruire il futuro. Per rendere con maggior realismo la condizione delle sue protagoniste Petit ha frequentato per un anno centri d’assistenza per donne senzatetto sparsi per il territorio francese, traducendo, poi, in immagini la loro vicenda con uno stile asciutto e incisivo, influenzato da quello dei fratelli Dardenne (Rosetta, 1999) e di Ken Loach (Io, Daniel Blake, 2016).
Brave ed efficaci le attrici Corinne Masiero, Audrey Lamy, Déborah Lukumuena, Noémie Lvovsky, nei panni delle quattro assistenti sociali che lottano contro l’invisibilità comune.
Barbara Rossi