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La speranza non può che assomigliare a un vizio, dannato, insistito e ossessivo, a Castel Volturno, provincia di Napoli, dove la gente – clandestini, sbandati, disperati – vive senza più tetto né legge. In mezzo a tutta questa desolazione vive Maria (che ha il volto interessante di Pina Turco, compagna del regista Edoardo De Angelis), viso, corpo e anima colmi di cicatrici, una Maria Maddalena abbrutita, sola, traghettatrice indifferente di prostitute africane che per necessità vendono il proprio utero al miglior offerente, sfruttata anch’essa da una disgraziata un po’ più furba e prepotente di altre. Quando Fatimah (Odette Gomis) decide di fuggire via con il figlio che aspetta, Maria – che ha scoperto di aspettare anche lei un bambino, nonostante la convinzione di essere sterile – muta la sua non-prospettiva sul mondo: non si accontenterà di sopravvivere, cercherà un guado verso la libertà. Con Il vizio della speranza – che ha ricevuto di recente il Premio del Pubblico BNL alla Festa del Cinema di Roma e quello alla Migliore Regia e Migliore Attrice al Tokyo International Film Festival – Edoardo De Angelis approfondisce un discorso su emarginazione e difficoltà d’integrazione già iniziato nel precedente Indivisibili (2016, vincitore di sei David di Donatello e cinque Nastri d’Argento) e con la medesima ambientazione, le rive del fiume Volturno, luogo geografico e simbolico insieme. La recitazione asciutta degli attori, prima fra tutti la bravissima Pina Turco, lo stile incisivo e secco, la musica di Enzo Avitabile concorrono a dar vita a un film – splendido pur nella sua terribilità – su di un tessuto sociale tra i più degradati del nostro Paese, che assurge a metafora di una condizione umana universale. Unica pecca: la sceneggiatura, a tratti un po’ ridondante. Ma è un peccato veniale.

A Private War, opera prima e biopic del regista americano Matthew Heineman, racconta nella forma di un ininterrotto flaskback la vita professionale della cronista Marie Colvin (Rosamund Pike), reporter di guerra per il Sunday Times dal 1985 sino alla sua morte avvenuta nel 2012  – all’età di cinquantasei anni – a Homs, città siriana all’epoca sotto assedio. Il film, presentato in anteprima al Toronto International Film Festival lo scorso settembre, adatta l’articolo di Marie Brenner Marie Colvin’s Private War, pubblicato l’anno stesso della sua uccisione sulla rivista Vanity Fair. Rosamund Pike si spoglia e libera dell’apparato seduttivo e della bellezza esteriore che le hanno fruttato successo e fama (a partire dal ruolo della Bond girl ne La morte può attendere, 2002, passando attraverso Gone Girl L’amore bugiardo, 2014), per approdare al ruolo più drammatico e intenso della sua carriera, per il quale si dimostra all’altezza. Heineman riesce a cogliere sia la dimensione pubblica di Marie, i suoi continui e frenetici appostamenti nello Sri Lanka, dove aveva perso un occhio, a Timor Est, in Cecenia, Iraq, Libia, Afghanistan, dovunque fosse in corso un conflitto da documentare, sia quella più personale, funestata dall’ossessione del racconto e della denuncia sociali e dagli incubi che la sua “private war” le procurava. La Colvin dava vita a una cronaca impietosa, che si soffermava soprattutto sulle ferite inferte alle persone, sulle sofferenze dei civili, sulla necessità di avvicinare la fetta di mondo comodamente seduta davanti al televisore alle tragedie di cui lei quotidianamente era testimone. Da questa prospettiva la pellicola di Heineman non tradisce il lascito cronachistico e morale di Marie, interrogandosi anche con intelligenza sul diritto/dovere di cronaca. Una vicenda emblematica, su cui riflettere a lungo.

Barbara Rossi