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Se ne sono andati praticamente insieme, questi due grandi vecchi del grande cinema, l’attore Paolo Ferrari e il regista Ermanno Olmi: il primo – mattatore anche in teatro e in televisione – appena ieri, il 6 di maggio; il secondo, questa notte. Entrambi avevano raccontato con il loro talento espressivo le mille incarnazioni dell’umano, un’Italia ancora contadina, un “mondo piccolo” che a poco a poco cresce e si trasforma nel Paese del boom economico, del benessere, dei varietà luccicanti e degli sceneggiati televisivi (di cui Ferrari fu uno degli indiscussi protagonisti, oltre ad avere interpretato una quarantina di film e avere lavorato alla radio e in cabina di doppiaggio).

Olmi amava ripetere: “Non temo che mi considerino un sentimentale. Io sono uomo ‘di sentimenti’, che è diverso. Del resto, se nella vita non sono sistemati quelli, non si riesce a fare nulla”. Il cineasta bergamasco, ottantaseienne, aveva esordito giovanissimo nel documentario di fabbrica, numerose opere realizzate per la Edisonvolta, l’azienda elettrica per cui lavorava e grazie alla cui lungimiranza potè iniziare a cimentarsi nella regia. Fin da quelle prime prove – e poi attraverso pellicole come Il tempo si è fermato, suo lungometraggio d’esordio, Il posto, I fidanzati, E venne un uomoLa circostanza – aveva fermato la sua attenzione su tutte le sfumature dell’umano, sui dettagli di vita quotidiana, su un senso del divino che traspariva dalle azioni minime, da una natura spesso matrigna ma mai puramente decorativa.

La poesia del cinema di Olmi nasceva, come nei dipinti di Vermeer, dalle piccole cose, da sguardi, gesti, scorci, e aveva trovato il suo punto più alto ne L’albero degli zoccoli, Palma d’Oro a Cannes nel 1978, straordinario, realistico e lirico affresco di una civiltà contadina quasi al tramonto, interpretato da attori non professionisti, che recitavano in dialetto bergamasco. Nel 1982, a Bassano del Grappa, Olmi aveva fondato la scuola di regia “Ipotesi Cinema”, dalla quale sono passati nuovi talenti come Giorgio Diritti, Francesca Archibugi, Roberta Torre: nel 2013 l’Università di Padova gli ha attribuito la laurea honoris causa in Scienze Umane e Pedagogiche per “la sua azione di valorizzazione delle radici culturali, della memoria, delle tradizioni, della grande storia e dell’esperienza quotidiana e delle piccole cose.”

Con Lunga vita alla signora!, fabula amara e dolorosa su di una certa realtà sociale e sulle ambizioni oscure del potere, Olmi aveva vinto il Leone d’Argento a Venezia nel 1987, replicando due anni più tardi con il Leone d’Oro per La leggenda del santo bevitore – dall’omonimo romanzo di Joseph Roth – malinconico e intimistico film sull’imprevedibilità del destino. Aveva anche diretto Paolo Villaggio, attore protagonista, nel 1993, de Il segreto del bosco vecchio, dal romanzo di Dino Buzzati; nel 2001 aveva narrato la storia di Giovanni dalle Bande Nere ne Il mestiere delle armi, arrivando a lavorare, nel 2005, con Abbas Kiarostami e Ken Loach nel film a episodi Tickets.

Dall’innata sensibilità di autore e dall’ampiezza del suo sguardo sul mondo erano nate, negli anni più recenti, opere come Il villaggio di cartone (2011), ambientato in una comunità di extracomunitari africani, e Torneranno i prati (2014), sulla tragedia della prima guerra mondiale. Il suo ultimo film documentario, Vedete, sono uno di voi, uscito sul grande schermo lo scorso anno, ricostruisce il percorso di vita e di fede del cardinale Carlo Maria Martini.

Detentore anche di un Leone d’Oro alla carriera, ricevuto nel 2008, Ermanno Olmi ha raccontato nel suo libro autobiografico “L’Apocalisse è un lieto fine. Storia della mia vita e del nostro futuro”, del 2013, la sua esistenza dedicata al cinema, la spiritualità, il rapporto con l’amata moglie Loredana, incontrata sul set de Il posto, e con i tre figli, Elisabetta, Andrea e Fabio. “E’ stupefacente la facoltà dei sogni nel rendere vero l’irreale e credibile l’impossibile“, scrive in un passaggio dell’autobiografia, raccontando di aver sognato i propri ragazzi ancora bambini. “Tuttavia, l’irreale e l’impossibile del miosogno hanno un loro recondito significato. Che sia questo l’Eterno? Che nulla cadrà mai più nell’oblio? Che il sogno sia il fine ultimo dell’esistenza umana? E’ stato bello ritrovarci tutti uniti nel medesimo sogno”.

Barbara Rossi