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In questo fine settimana nevoso e freddo escono sul grande schermo due storie diversamente intriganti, ricche di pathos e fascino, anche dal punto di vista stilistico.

Dal romanzo di Delphine De Vigan e su sceneggiatura di Olivier Assayas, Roman Polanski torna al cinema dopo Venere in pelliccia con Le cose che non so di lei, un thriller-noir elegante e raffinato, in cui riconferma le sue ossessioni cinematografiche: il doppio, il rapporto arte-vita, lo scambio delle identità, il turbolento viaggio fino in fondo alla notte degli istinti e delle pulsioni che si agitano nel cuore umano. Delphine (Emmanuelle Seigner) è una scrittrice sull’orlo di una crisi di nervi, a causa del romanzo di successo che ha scritto, raccontando del rapporto con la propria madre; il suo fragile mondo va in pezzi quando inizia a ricevere una lunga serie di missive anonime, minacciose e accusatorie nei confronti del suo lavoro. E’ lì che arriva Elle (Eva Green), lettrice e fan appassionata, seduttiva ma inquieta e ambigua come una dark lady; talmente convincente da indurre Delphine a dividere il proprio appartamento con lei. Ma quando il filo che separa la realtà dalla finzione inizia a diventare sempre più sottile, la situazione rischia di precipitare entrambe in un abisso pericoloso…Polanski si riconferma con questo film (che riprende, in alcuni passaggi alcune sue opere precedenti, da Frantic a La nona porta e L’uomo nell’ombra; senza voler richiamare a tutti i costi, al di fuori della sua cinematografia, l’oramai classico Misery non deve morire) artefice del miglior cinema d’autore, in grado di sfruttare al meglio la presenza scenica e le doti delle sue attrici: la Seigner e la Green sanno immergersi con efficacia nei loro ruoli, ma in maniera fluida, nella fatale incompiutezza delle figure femminili che incarnano. Afferma, a questo proposito, Eva Green:Non è stato facile perché Elle è una figura astratta, ambigua, fino alla fine non sai nemmeno se sia reale o meno. A dire la verità, io stessa non ho ancora capito se il mio personaggio esiste oppure no”.

Lady Bird di Greta Gerwig, regista esponente del miglior cinema indie e già autrice, con il compagno Noah Baumbach, del notevole Frances Ha, minaccia di diventare – con le sue cinque candidature, tra cui miglior film, regia e attrice protagonista, la giovane e intensa Saoirse Ronan già candidata per Espiazione e Brooklyn –  uno dei film pluripremiati nell’imminente notte degli Oscar. Qui la Gerwig naviga, per la prima volta, in solitaria, raccontando senza troppa indulgenza ma con sguardo indagatore e attento i sogni, i timori, le prime esperienze adolescenziali di Christine-lady Bird (Saoirse Ronan), studentessa dell’ultimo anno di un liceo cattolico di Sacramento, California, sul cui sfondo viene proiettata l’insoddisfazione per la ristretta vita di provincia, il desiderio-mito di New York, i primi amori (Danny-Lucas Hedges, candidato all’Oscar nel 2017 come non protagonista per Manchester by the sea, e Kyle-Timothée Chalamet, tra i favoriti quest’anno con Chiamami col tuo nome), il rapporto tormentato con i genitori e, specialmente, con la madre Marion (Laurie Metcalf). Lady Bird mette in scena romanzo di formazione come tanti, ma senza sottostare – come solo pochi sanno fare – alle strettoie del genere, sia cinematografico che letterario. Un’opera fresca, ironica, intelligente, ricca di linfa vitale.

Barbara Rossi