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Questo inizio di novembre si apre, cinematograficamente parlando, con Gifted-Il dono del talento di Marc Webb, già autore di due pellicole appartenenti alla saga di Spider-Man, qui alle prese con un radicale cambio di genere: la storia, infatti, è quella di Frank Adler (Chris Evans), single e zio con mandato paterno nei confronti della piccola Mary (la bravissima Mckenna Grace), la figlia di sua sorella, che ha ereditato dalla madre l’inclinazione a un genio matematico assolutamente precoce e spiazzante per chi le sta intorno, istituzione scolastica compresa. Il film ruota attorno a questo assunto, descrivendo la quotidiana lotta combattuta da Frank per supportare Mary nel vivere appieno il suo talento e, nello stesso, per evitare un trattamento iperprotettivo o discriminatorio “al contrario”: un riconoscimento del genio, insomma, che la escluda dalle prerogative tipiche della sua età infantile. Il tema, quello della difficile trattabilità del genio da parte della società, non è nuovo al cinema, pensiamo a Il mio piccolo genio di Jodie Foster (1991); qui viene declinato in un altalenare continuo tra commedia e dramma, con regia felice e buona direzione degli attori, mettendo in luce anche le dinamiche del rapporto parentale e amicale insieme tra zio e nipote. Un buon film, con – per fortuna – scarsi abbandoni alla retorica dei sentimenti.

Con Una questione privata i fratelli Taviani, grandi vecchi del nostro cinema, ritornano dopo Cesare non deve morire e Maraviglioso Boccaccio alle atmosfere drammatiche della lotta partigiana già evocate ne La notte di San Lorenzo (1982), adattando il romanzo del 1963 di Giuseppe Fenoglio. Il centro del racconto è Milton (Luca Marinelli), giovane partigiano diviso tra i combattimenti per la liberazione dal nazifascismo, l’amicizia con il compagno di brigata Giorgio (Lorenzo Richelmy) e l’amore quasi impossibile per Fulvia (Valentina Bellè): sullo sfondo, nebbiosa e terribile nei misteri che cela, la collina delle Langhe, che è anche utero materno, memoria, nostalgia di casa. I Taviani dialogano con la Storia e la tragedia di un popolo con scarni dialoghi, molti sguardi, silenzi assoluti e densi, una fotografia depurata da ciò che è inutile, ridondante. Molto bravi e intensi i giovani attori, per lo più di derivazione teatrale, in un film che sa raccontare con commozione ma senza compiacimento alcuno, narrativo o estetico che sia, le speranze, poi tradite, di una generazione ricca di sogni, ideali, miti (l’America) purtroppo vergognosamente infranti.

Il Mr. Ove (Rolf Lassgård) dell’omonimo film del regista svedese Hannes Holm, candidato all’Oscar 2016 come miglior film straniero, tratto dal romanzo di Fredrik Backman “L’uomo che metteva in ordine il mondo”, è un uomo bizzarro, pensionato cinquantanovenne, ossessionato dal senso dell’ordine e della pulizia, dai vicini imperfetti e grossolani, dal vecchio lavoro alla Saab, dalle diavolerie del mondo moderno. Burboso, scontroso sino a diventare, in certi momenti, intrattabile, Ove Lindahl è solo l’ultima, riuscita manifestazione di una lunga serie di anziani letterari e cinematografici dall’aspetto ruvido ma dal cuore bambino, a partire dal signor Scrooge del dickensiano Canto di Natale, passando attraverso il Walt Kowalski eastwoodiano di Gran Torino. Sull’orlo del suicidio, di fronte alla perdita dell’amatissima moglie Sonja (Ida Engvoll) e al progressivo tracollo sociale e morale del mondo, ma a tutti gli effetti uomo di mondo, capace anche di larghe vedute e di improvvisi gesti di generosità, Ove ritrova forza e fiducia dall’incontro con la nuova vicina di casa di origini iraniane, Parvaneh (Bahar Pars), con la sua vita caotica accanto ai figli, presenti e in arrivo, oltre che al marito svedese con molti limiti come aiuto domestico. In fondo, Mr. Ove è profondamente consapevole del passato (che, nel film, sopraggiunge nel ricordo attraverso una nutrita serie di flashback e che non torna più): sa che, come afferma lui stesso, “non c’era niente prima di Sonja, e non c’è niente dopo”. Eppure, Ove, come la maggior parte degli esseri umani, continua a sforzarsi di vivere, lottando ogni giorno contro la monotonia dell’esistenza, la mancanza dis enso, il grigiore plumbeo del cielo nordico, che fatica a scoprire il sole. Una pellicola leggera, delicata ma profonda, acuta e intelligente sul senso del tempo, la solitudine, la vecchiaia, i ricordi, le buone amicizie, l’amore, con un ottimo personaggio tratteggiato a tutto tondo e destinato a rimanere a lungo nella memoria.

Barbara Rossi