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Ricordando i capolavori del grande maestro della Nouvelle Vague francese

“I film avanzano come treni nella notte”

Il 1959 è stato un anno fondamentale per la Nouvelle Vague francese: si pensi a titoli come “Fino all’ultimo respiro” (di Jean-Luc Godard, con un indimenticabile Jean-Paul Belmondo), “A doppia mandata” (Claude Chabrol), “Il segno del leone” (Eric Rohmer) e “Hiroshima, mon amour” (Alain Resnais). In quell’anno, François Truffaut, scrive e dirige il suo primo film, “I 400 colpi”: le avventure dell’adolescente Antoine Doinel proseguiranno nell’episodio “L’amore a vent’anni” (1962), in “Baci rubati” (1968), “Domicile conjugal” (1970, da dimenticare l’orribile e fuorviante titolo italiano “Non drammatizziamo… è solo questione di corna”) e ne “l’Amore fugge” (1979), in cui il protagonista interpretato da Jean-Pierre Leaud è ormai diventato uomo e può ripercorrere in maniera romanzata le varie fasi della propria vita. François-Truffaut,-Jean-Pierre-Leaud-e-Jacqueline-BissetCome ha ricordato il critico Alberto Barbera, il ciclo-Doinel rappresenta un esempio irripetibile di “stupefacente coincidenza tra le esigenze di un regista e le capacità di un attore” e la conturbante coincidenza “tra l’evoluzione immaginaria del personaggio e lo sviluppo fisico dell’attore”: anche perché – caso pressoché unico nella storia del cinema -, dal secondo capitolo delle avventure di Antoine Doinel in avanti, Truffaut può contare su flashback autentici quando il protagonista ricorda qualche avvenimento importante della propria vita passata. Ma ricordare Truffaut a 30 anni dalla sua morte, significa parlare non solo di molte altre storie divertenti e commoventi di bambini e adolescenti (“Il ragazzo selvaggio”, 1970 e “Gli anni in tasca”, 1976), ma anche del triangolo amoroso per eccellenza in “Jules et Jim” (1961) e ne “Le due inglesi” (1971), delle incursioni in un futuro prigioniero del passato e, comunque, non troppo lontano (Fahrenheit 451, 1966), di vari riferimenti al maestro Hitchcock e ai colleghi illustri della Nouvelle Vague (“La sposa in nero”, 1967 e “La mia droga si chiama Julie”, 1969) o di altri titoli fondamentali come “L’uomo che amava le donne” (1977, grande esempio di cinema “intimo ma non intimista”, come ha sottolineato giustamente Paolo Mereghetti nell’omonimo dizionario) e “La camera verde” (1978), dove anche il culto per i defunti può diventare poesia allo stato puro. Su un ideale podio, però, restano nella mente e nel cuore la metacinematografia di Effetto notte (1973, Premio Oscar come miglior film straniero, con una Jacqueline Bisset in stato di grazia) e l’elemento metateatrale de “L’ultimo metrò” (1980), con Catherine Deneuve e Gerard Depardieu, che l’anno successivo sarà presente anche ne “La signora della porta accanto”, insieme all’ultima musa di Truffaut, Fanny Ardant. Un capitolo a parte, poi, meriterebbero le colonne sonore, composte da Jean Constantin, Antoine Duhamel, Bernard Herrmann (autore delle musiche di tantissimi film di Hitchcock) e, soprattutto, George Delerue. Tante le iniziative per ricordare il grande regista, ad esempio la retrospettiva organizzata allo Spazio Oberdan di Milano: anche perché, come ha ricordato Truffaut, “i film sono più armoniosi della vita. Non ci sono intoppi nei film, non ci sono rallentamenti. I film avanzano come treni nella notte”.

Gianmaria Zanier

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