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Jack Reacher-Punto di non ritorno di Edward Zwick (L’ultimo samurai, sempre con il superdivo Tom Cruise) apre questo weekend cinematografico, purtroppo senza fuochi d’artificio.
La trasposizione del diciottesimo romanzo di Lee Child dedicato alle avventure dell’ex maggiore dell’esercito americano Jack Reacher non difetta in azione, velocità, ritmo, violenta fisicità esibita sino al limite estremo, per accontentare gli appassionati del genere; tuttavia, il plot è debole, la narrazione (il ritorno in Virginia di Reacher, il tentativo di aiutare la collega Susan Turner-Cobie Smulders, accusata di spionaggio, e sullo sfondo l’ipotesi di un figlio misterioso) banale, un semplice pretesto per l’esibizione del corpo di un Tom Cruise visibilmente invecchiato ma ancora in grado di reggere il ruolo. L’impianto è fumettistico, i personaggi stereotipati (così come i duelli verbali tra Jack e Susan): Zwick soddisfa la regola del minimo sindacale, che certo non soddisfa i palati più esigenti.

Di diverso spessore è, invece, American Pastoral, il film che Ewan McGregor – al suo esordio alla regia – trae dal romanzo omonimo di Philiph Roth, premio Pulitzer per la narrativa nel 1998.
Il protagonista della storia, Seymour Levov, detto “Lo svedese” (Ewan McGregor) è un giovane uomo d’affari ebreo di successo, nato nel New Jersey, a cui la vita pare aver regalato tutto: compresa una moglie affascinante (Dawn-Jennifer Connelly) e una figlia adolescente (Merry-Dakota Fanning). Sarà proprio quest’ultima a far naufragare il sogno, la “pastorale americana” di cui Seymour si è fatto portavoce nel corso del tempo, compiendo un attentato terroristico e poi sparendo nel nulla. Intorno allo spiazzante e totale ribaltamento di posizioni e prospettive di vita dello “Svedese” e della sua famiglia, McGregor costruisce un’opera originale ma fedele alla sua fonte, pur nell’inevitabile sintesi di una riduzione. Sul volto di Seymour, indagato instancabilmente dalla macchina da presa, passa il crollo delle speranze individuali e collettive di una società americana che ha fondato il senso della propria identità su falsi miti e illusioni.
Il racconto del film viene diluito con sapienza dalla voce over narrante, quella di Nathan Zuckerman (David Strathairn), amico di Seymour e alter-ego dello stesso Roth nel romanzo.

Io, Daniel Blake è un film diretto, franco, non retorico, nello stile di Ken Loach. Premiato con la Palma d’Oro a Cannes la scorsa primavera, racconta con la consueta partecipazione umana ed emotiva del regista inglese l’odissea privata e sociale di Daniel Blake (Dave Johns) e Katie (Hayley Squires): lui, falegname cinquantanovenne, in seguito a un grave problema cardiaco non può più lavorare, e attende invano un sussidio statale; lei, giovane mamma single, è disoccupata. I due si incontrano al centro di collocamento, condividono solitudine, disperazioni, attimi sereni, lotte per la riconquista di un impiego e della dignità di esseri umani. Dopo Ladybird Ladybird (1994), ma con minore disperazione, e come in molta parte della sua cinematografia, Loach mette al centro della scena una società che abbandona e pare addirittura farsi beffe degli ultimi, degli emarginati, di chi non può, anche solo temporaneamente, difendersi sotto lo scudo protettivo di un lavoro solido e ben retribuito. La denuncia è esplicitata, urlata, sovraesposta, non tanto nello stile, quanto nell’assurdità delle situazioni che Daniel e Katie sono costretti a vivere. “Il mio è solo un film”, sostiene Loach. “Non faccio politica. Tutto quello che vogliamo è che gli spettatori escano dal cinema ponendosi alcune domande, in preda a un senso di rabbia che potrebbe guidarli a condividere il problema”.

Barbara Rossi

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