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Il weekend cinematografico di metà marzo offre, tra le altre proposte di un cinema a forte impegno civile e sociale, Il diritto di contare di Theodore Melfi, ambientato nella Virginia razzista degli anni Sessanta. Basata sul libro Hidden Figures: The Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race di Margot Lee Shetterly, la pellicola narra la vera storia vera della scienziata afroamericana Katherine Johnson (Taraji P. Henson), supervisore di un gruppo di ricerca formato da altre due matematiche – Dorothy Vaughan (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monàe) – che ha collaborato con la NASA alla realizzazione del Programma Mercury e della missione Apollo 11, facendo arrivare l’astronauta americano John Glenn (Glen Powell) a compiere il primo volo in orbita attorno alla Terra e, in seguito, gestendo la prima missione umana sulla Luna. Il diritto di contare vale per ciò che racconta, più che per come lo fa: il segregazionismo, la forte discriminazione verso i lavoratori di colore che pervadeva in quegli anni anche un ambiente ad alto livello intellettuale come quello dell’industria aerospaziale americana, sono posti in evidenza, sottolineati da una sceneggiatura forte e ben costruita. Lo stile narrativo è, invece, quello classico, nella convenzionalità di scene, inquadrature e montaggio, pur supportati dall’ottima recitazione degli attori e, in particolare, delle tre protagoniste Johnson, Spencer e Jackson.

La seconda proposta cinematografica di questo fine settimana ci trattiene nell’ambito dei film sul tema della discriminazione e segregazione razziale (sull’onda, piuttosto consistente, di altre pellicole che se ne sono occupate nell’ultimo periodo, prima fra tutte A United Kingdom, l’amore che ha cambiato la storia). Loving di Jeff Nichols (autore, nel 2011, del pluripremiato e inquietante Take Shelter, con l’attore “feticcio” Michael Shannon, presente nel ruolo di Grey Villet anche in quest’ultimo lavoro) ci fa entrare, attraverso lo sguardo sempre vigile e teso del regista, attento ai minimi dettagli, nella vita di Richard Loving (Joel Edgerton), muratore nella Virginia dei grandi paesaggi rurali, figlio di una levatrice. L’esistenza si complica quando Richard si innamora di Mildred (Ruth Negga), una ragazza di colore, e la sposa. Nella Virginia del 1959 le unioni miste vengono punite con la detenzione, e la coppia viene condannata a un esilio di venticinque anni . Il caso “Loving versus Virginia” arriverà fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Nichols imbastisce un racconto ad alta tensione, mai banale, giocato su quei segnali ammonitori di cui è costellata l’esistenza, e che spesso non riusciamo a vedere. Film meritatamente candidato al premio Oscar e a due Golden Globe.

Al cinema Macalle’ di Castelceriolo sino a martedì 21 marzo è in programmazione Un padre, una figlia di Christian Mungiu, regista rumeno vincitore nel 2007 della Palma d’Oro a Cannes per il suo secondo lungometraggio 4 mesi, tre settimane, due giorni. In quest’ultimo film Mungiu affronta il tema della paternità, del rapporto complicato e delicato con i figli, di fronte a scelte e inciampi della vita di fronte ai quali non è più possibile rimanere inerti. Romeo (splendido l’attore che lo interpreta, Adrian Titieni) lavora come medico nell’ospedale di una piccola cittadina rumena. Conduce una vita sentimentale a parte, insieme ma nello stesso tempo lontano dalla moglie, per evitare scosse emotive all’amatissima figlia Eliza (Maria-Victoria Dragus), che sta per diplomarsi con l’obiettivo di proseguire gli studi in un college inglese. La mattina prima degli esami finali accade, però, un fatto drammatico, che coinvolge Eliza, minacciando di rovinare per sempre i suoi sogni. Toccherà a Romeo intervenire, mettendo in discussione i suoi principi, il suo ideale di paternità e se stesso. Mungiu racconta con la consueta asciuttezza di stile (forse con un pizzico di disperazione in meno rispetto a 4 mesi, tre settimane, due giorni), attraverso la vicenda di Romeo ed Eliza, l’evoluzione di una Romania (di un’Europa?) ancora troppo votata al compromesso, all’inflazione delle reti di “amicizie” utili, sullo sfondo di un grigiore sociale costante. Il finale è un po’ troppo pacificatore, ma nulla toglie al valore dell’opera.

Barbara Rossi

 

         

 

 

 

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