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La panoramica sui film di questo fine settimana inizia con The Great Wall del famoso regista cinese Zhang Yimou (apprezzato anche in Occidente per l’ormai lontano Lanterne rosse, 1991, oltre che per i più recenti Hero, 2002, e La foresta dei pugnali volanti, 2004). The Great Wall è il primo film di origine cinese che abbia come protagonista un attore americano (Matt Damon, nel ruolo di William Garin) e che sia stato girato in lingua inglese: ha anche un budget di lavorazione molto alto; oltre 135 milioni di dollari. La storia è quella di William e Pero (Pedro Pascal), mercenari europei approdati in Cina alla ricerca della “polvere nera”, progenitrice della polvere da sparo, di cui rifornire l’Occidente: si ritrovano invece, dopo essere stati fatti prigionieri dall’esercito cinese, a combattere al suo fianco contro delle terribili creature di colore verde, i Taotie, che ricompaiono ogni sessant’anni. Per fermarli, verrà costruita la Grande Muraglia.
Singolare commistione di action, fantascienza sui generis e film di cappa e spada, The Great Wall ci mostra un Zhang Yimou molto lontano dalle atmosfere elegantemente europee delle prime prove: blockbuster roboante ma superficiale, ambizioso e ottimamente riuscito a livello visivo ma soggiacente a logiche puramente commerciali, non trova riscatto in originalità o intelligente strutturazione del plot. Conta quello che si vede. Che è molto, ma anche troppo poco.

Presentato a Venezia lo scorso settembre, vincitore del premio per la migliore sceneggiatura e candidato a tre premi Oscar, Jackie del cileno Pablo Larrain (già autore di Neruda, 2016) rivisita un’altra figura della Storia, non solo americana ma mondiale, vera e propria icona di bellezza ed eleganza, oltre che di potere.
Il film ruota intorno all’intervista che Jackie (Natalie Portman) rilascia a Theodore H. White (Billy Crudup), giornalista politico di “Life”, appena cinque giorni dopo l’uccisione a Dallas del marito e presidente degli Stati Uniti John Kennedy. Scena dopo scena, inquadratura dopo inquadratura, dialogo dopo dialogo, Larrain ricostruisce la storia di vita, pubblica e privata, non solo della first lady, ma anche della donna, in un intreccio tra realtà e finzione difficile da sciogliere. Bravissima la Portman, nell’aderire anche fisicamente (e con l’ausilio dei fedelissimi costumi di scena) all’algida perfezione fisica di una donna dalle molte ombre e dalle mille sfaccettature.

Manchester by the sea, del regista e sceneggiatore newyorchese Kenneth Lonergan – autore, nel 1999, di Conta su di me, film candidato a due premi Oscar – è nuovamente un’opera aspirante a fare incetta di statuette (sei), con alle spalle la recente vittoria ai Golden Globe per il miglior attore drammatico (Casey Affleck nei panni dell’idraulico Lee Chandler).
Lee vive in solitudine in un seminterrato di Boston, ha un passato tragico, forse poca voglia di vivere ancora: alla morte del fratello Joe è costretto a tornare a casa, a Manchester by the sea, sulle coste del Massachusetts, un luogo salmastro e inospitale, dove lo attende il nipote adolescente Patrick (Lucas Edges). Tra il ragazzo, rimasto solo, e Lee nasce un rapporto difficile ma sincero e via via più profondo, che aiuterà entrambi a rimarginare molte ferite.
Film di asprezze e solitudine, di silenzi e chiusure, di ferite e tentativi di sutura, Manchester by the sea sa colpire, con durezza e dolcezza, l’animo dello spettatore. Una classica storia di dolore, colpa, riscatto e speranza, raccontata con perizia e sapiente arte narrativa.

Barbara Rossi

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