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Riceviamo e pubblichiamo questo scritto-riflessione sulla violenza, firmato da Vincenzo Andraous:

E’ un tempo vestito rosso scarlatto, di tragedie e angoli bui, un tempo in cui non è salutare per niente rimuovere per dimenticare, dunque sarà bene ricordare fino all’ultimo pugno nello stomaco.
Donne a morire, a lasciare spazi vuoti, momenti di vita dilaniati dallo strapotere e dal delirio di onnipotenza maschile.
Donne, ridotte a cose, a oggetti, a insopportabili presenze, non soltanto da spostare, allontanare, sostituire, bensì, da annientare, devastare, ridurre a un buco nero profondo, dove non vi è più possibilità di accesso, di un ritorno.
Donne, compagne, mogli, diventate parti offese dell’inadeguatezza maschile, donne a perdere nella ragione, donne sconfitte dalla fiducia spogliata di ogni onore, figuriamoci di un qualche amore.
Donne e madri accasciate, con gli occhi sgranati, le mani a proteggersi, supplicando la pietà ammutolita e in ritirata.
Donne e madri insufficienti a pagare dazio, divenute insostenibili, irrappresentabili, congrue assenze a rappresentare una ignobile “liberazione”.
A quelle madri colpite, dilacerate, niente va lasciato al caso, neppure i propri figli, i bambini, innocenti, quelli che ancora non fanno carico di colpa, di giustificazione, di pesi e di misure mai concordate.
Bambini fatti a pezzi in tanti modi differenti, un rituale dove la mamma è protagonista designata da accompagnare alle altre vittime sacrificali, bambini che s’accorgono delle bestemmie, delle offese, delle violenze, bambini che ascoltano e tacciono per paura e per amore.
Uomini che non possono esser declinati semplicemente delle bestie, infatti gli animali non fanno di questo male il proprio agire, piuttosto sono persone che non sanno più coniugare l’istinto alla ragione, non riescono più a collocare nel posto dovuto la compassione, si tratta di uomini che non hanno i polsi legati dalle periferie ben note, dai portoni blindati, dalle celle chiuse, uomini che non sono di un ambiente sub-urbano ben conosciuto, sono persone vestite di agio, di benessere, di normalità, di stima tutto intorno.
Uomini di una tranquilla esistenza, dove ogni cosa evidentemente non è al suo posto, non quadra più, qualcosa manca all’appello.
Innumerevoli donne maltrattate sono la traccia marcata di una cultura del possesso, del dominio, del sopruso, cultura di una libertà costretta come una puttana.
Quei bambini azzerati senza un sussulto di pietà, non sono il frutto di una cultura dell’iracondia delinquenziale, di una legge di sangue omertosa, ma il risultato di una inutilità personale-esistenziale, come se a ogni piè sospinto, fosse in agguato la ferocia di una relazione incompiuta, di un amore idealizzato in divieto di sosta, una affettività emozionale inesistente, una spietatezza incolore, dentro una calma piatta, dove chi agisce e si muove non si aspetta più nulla dal presente, perché è già futuro scalzato all’indietro.
Ho chiesto lumi a Massimo, uno mio amico psicologo assai perspicace, il quale alla mia domanda: come è possibile toccare l’intoccabile? Mi ha risposto: è la solitudine, quella dimensione che ti fa sentire solo, che non ti chiama alla responsabilità, ti disgiunge dalla fortezza del sapere chiedere aiuto, ti inchioda nella trappola di una “scissione” silenziosa e opprimente, che scalza ogni emozione approdando a una scelta folle e imperdonabile.
Mi ha fatto l’esempio dei binari, l’equilibrio delle distanze parallele, finchè la solitudine più acciaiosa, non consente più di sopportare il peso del proprio malessere, inadeguatezza, rifiuto, improvvisamente le linee s’allargano, biforcano, si sovrappongono, contorcendosi, dimenandosi, lamentandosi, con l’unico risultato del silenzio nella follia sopraggiunta.
Noi continueremo a parlare di colpa inusitata, di inasprimento delle pene, di fiamme dell’inferno senza possibilità di comprendere questi comportamenti, forse occorrerà parlarne di più e meglio, con un senso ritrovato sugli stili vita, non tanto e non solo legati al vivere civile, ma al modo in cui fare davvero comunità.
Cesare Pavese poco prima del suo lungo viaggio ebbe a dire: “ Domani tornerà l’alba tiepida con la diafana luce e tutto sarà come ieri, e mai nulla accadrà”.

Di Fausta Dal Monte

Giornalista professionista dal 1994, amante dei viaggi. "La mia casa è il mondo"

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