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Le migrazioni di migliaia di persone, uomini, donne e bambini, in fuga da instabilità politica e repressione, non avvengono solo a cavallo del Mediterraneo. In tutto il mondo vi sono popoli che abbandonano il luogo di nascita quando diventa impossibile viverci.

Un esempio quasi plastico della comune crisi umanitaria è rappresentato dal Burundi. Il suo presidente, Pierre Nkurunziza, ha deciso di candidarsi per il terzo mandato, nonostante la Costituzione formalmente glielo impedisca. Il nullaosta dato dalla Corte costituzionale locale ha dato il via a numerose proteste nella capitale Bujumbura, con scontri di piazza e la formazione di una fronda d’opposizione guidata dall’ex responsabile presidenziale per l’intelligence, il generale maggiore Godefroid Niyombare. Dal paese, ricordato per una sanguinosa guerra civile tra Tutsi e Hutu durata tredici anni, sono fuggite più di 50.000 persone, per la maggior parte donne e bambini, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Esse si sono riversate in Ruanda, Tanzania e Repubblica Democratica del Congo. L’aggregarsi di moltitudini nei campi d’accoglienza ha creato non poche difficoltà dal punto di vista logistico e sanitario, come dimostrato dallo scoppio di un’epidemia di colera in un accampamento tanzanese, che ha provocato la morte di trenta rifugiati prima di essere messa sotto controllo dalle autorità preposte.

Se si sposta l’attenzione sul continente asiatico, s’incontra un altro caso di una comunità in fuga, quella dei Rohingya. Essi costituiscono la principale componente della minoranza musulmana in Birmania e rappresentano tra il 4% e il 10% della popolazione locale (più di un milione di persone, perlopiù residenti nello stato di Rakhine, a ovest del paese). Nei loro confronti v’è una forte discriminazione da parte della giunta militare e della maggioranza buddhista. La legge sulla nazionalità birmana del 1982, infatti, non li considera cittadini dello stato, bensì dei residenti stranieri, il che li espone ad abusi contro la propria libertà personale secondo Human Rights Watch. Persino Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace e simbolo vivente dei diritti civili calpestati, fatica a prenderne le parti, soprattutto in questi giorni di campagna elettorale per le elezioni di ottobre. Il suo silenzio, motivato o no da ragioni prettamente politiche, è risuonato forte sia in seguito alle rivolte nello stato di Rakhine nel 2012 che a commento della recente crisi umanitaria che ha coinvolto i Rohingya.

Nei primi tre mesi dell’anno, riporta Reuters, venticinquemila appartenenti a quest’etnia hanno attraversato il mare delle Andamane su imbarcazioni di fortuna, fornite loro da rapaci trafficanti di uomini. La massa di persone, proveniente non solo dalla Birmania ma anche dal Bangladesh, ha cercato accoglienza in Malesia, Indonesia e Thailandia. Gli echi della retorica anti-immigrazione, piuttosto popolare in Italia e messa in atto dalla politica dei respingimenti della vicina Australia, si sono fatti sentire anche in questo frangente, con il diniego iniziale all’approdo dei migranti da parte del viceministro dell’Interno malese Wan Junaidi Tuanku Jaafar. Tuttavia, le pressioni della comunità internazionale, Stati Uniti in testa, hanno portato a un ripensamento e all’accoglienza dei rifugiati.

Stefano Summa

@Stefano_Summa

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