dialessandria.it - no photo
dialessandria.it - no photo

Grande film corale, intelligentemente filosofico e riflessivo pur se travestito da commedia 2.0, Il gioco delle coppie (Non fiction) del francese Oliver Assayas, che dopo Sils Maria e Personal Shopper torna a interrogarsi su contemporaneità, comunicazione e rapporti di coppia ai tempi della società digitale. Attraverso la complicata e variopinta fauna umana – dal coté smaccatamente radical chic – messa in scena nel film (che si ama, si odia, si tradisce, si allontana e avvicina, in un movimento oscillatorio perenne e alquanto caotico), Assayas esplora l’uomo e il suo mantenersi animale sociale entro un reale ad alto tasso di complessità, elaborato nei modi ma superficiale di contenuti, irrimediabilmente diviso tra la convivialità quotidiana e spicciola dei caffè, dei bistrot, degli interni domestici e quella virtuale dei social, delle app, della tv e dei mass media. Le situazioni sono coinvolgenti, i dialoghi caustici e provocatori, per raccontare la girandola di scoppiettanti umori, intrighi professionali e del cuore in cui sono calati Alain (Guillaume Canet), prestigioso editore che ancora non sa come sfruttare, lavorativamente parlando, la rivoluzione digitale  in atto; sua moglie Selena (la, come sempre, bravissima Juliette Binoche), famosa attrice televisiva che ha raggiunto un successo a denti stretti grazie a una serie poliziesca; Léonard (Vincent Macaigne), autore della casa editrice di Alain, ma da lui disprezzato perché non riesce a scrivere altro che storie autobiografiche; Valérie (Nora Hamzawi), fidanzata di Léonard, curatrice della comunicazione di un uomo politico; e poi Laure (Christa Théret), social media manager della casa editrice di Léonard. Un film colto, brillante, sopra le righe, che non appiattisce la storia al semplice gioco di coppia, ma in maniera più sottile e dolorosa racconta lo smarrimento (anche e soprattutto intellettuale) di una generazione sospesa tra un passato residuale e un futuro rampante ma ancora confuso.

Una notte di 12 anni, del regista uruguayano Álvaro Brechner, narra in maniera secca, incisiva, potente, un’altra – una delle tante e terribili – persecuzioni della storia (avvenuta negli anni Settanta in Uruguay: sul tema c’è una significativa assonanza con l’ultimo lavoro di Nanni Moretti, Santiago, Italia). Nel settembre del 1973 l’Uruguay è sotto il giogo della dittatura militare, mentre i gurriglieri del Tupamaros sono stati imprigionati e sottoposti a torture: una notte, nove fra loro vengono sottratti alla detenzione ordinaria, rinchiusi a rotazione in diverse caserme sparse sul territorio e torturati con sevizie e abusi anche di tipo psicologico, cavie di un nuovo, inaudito esperimento da parte del regime. La pellicola si sofferma in particolar modo su tre figure, quelle di Rosco, Ñato e José Mujica, che riusciranno a sopravvivere all’immane prova: il primo, Mauricio Rosencof, proseguirà nella sua opera di autore lirico e drammatico, Ñato – Eleuterio Fernández Huidobro – diventerà Ministro della difesa, José Mujica Presidente della Repubblica dell’Uruguay. Brechner adotta una scansione temporale ben precisa, quotidiana, e frequenti incursioni tramite l’uso di flashback in eventi passati all’origine di quelli attuali, per restituire senza filtri tutto l’orrore della costrizione violenta, riuscendo a passare empaticamente il senso della sofferenza inflitta anche allo spettatore. Un film indispensabile, in primis allo stesso Uruguay, che – come molti altri paesi di quella parte del mondo – non ha ancora fatto totalmente i conti con la propria tragica storia.

Barbara Rossi