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Arriva anche sugli schermi italiani, in questo fine settimana di metà novembre, In guerra del regista francese Stéphane Brizé, già autore, tre anni fa, del film La legge del mercato, sempre con protagonista Vincent Lindon, all’epoca vincitore del premio per il miglior attore al Festival di Cannes. Il regista prosegue anche in quest’ultima pellicola la denuncia delle gravi problematiche sul tema del lavoro con cui la società attuale è costretta a confrontarsi, dalla precarietà alla globalizzazione e delocalizzazione, allo sfruttamento selvaggio e conseguente impoverimento delle risorse umane. Sulla scia di pellicole analoghe, quali – ad esempio – Due giorni, una notte (2014) dei fratelli Dardenne, In guerra racconta la lotta solidale dei millecento lavoratori dell’azienda Perrin, che produce elementi automobilistici, contro la dirigenza della multinazionale tedesca che li ha assorbiti, dapprima imponendo per cinque anni sacrifici economici allo scopo di salvare i posti di lavoro, poi annunciando – nel giro di soli ventiquattro mesi – di voler cessare l’attività. A capo della tenace e coraggiosa battaglia portata avanti dalle maestranze c’è il sindacalista Laurent Amédéo (Lindon), autentica testa d’ariete di una resistenza spesso disperata. La pellicola mette insieme la recitazione di attori professionisti e non – com’è consuetudine del regista – cronaca e fiction, con un ritmo narrativo esasperato, concitato e aggressivo, per dispiegare allo sguardo dello spettatore tutta la gravità di questo stato di cose. “Il divario tra la fetta piccolissima di ricchissimi e quello di una enorme quantità di poveri e sempre più grande”, sostiene Brizé. “Può sembrare un discorso socialista ma è semplicemente un discorso sociale, non è un’idea comunista ma la normalità del buon senso: la diseguaglianza nella ripartizione della ricchezza deve essere meno dilatata di quella attuale; la differenza tra i salari più alti e quelli più bassi deve diminuire. Questa sperequazione non può continuare a durare. Non dico che i ricchi devono diventare poveri, ma che chi ha poco deve avere la possibilità di un minimo per vivere dignitosamente”.

Dopo Una separazione (vincitore dell’Oscar e dell’Orso d’Argento nel 2012 come miglior film straniero), Il passato, Il cliente (premio Oscar 2017) il regista iraniano Asghar Farhadi ritorna con Tutti lo sanno, presentato al Festival di Cannes la scorsa primavera,  alle tematiche che gli stanno a cuore, allo scandaglio delle relazioni familiari e sociali viste nel loro punto d’impatto, di crisi e dissolvenza. Questa volta, però, il plot, nero e cupo sino a sfiorare la tragedia ma ambientato in una Spagna estiva piuttosto stereotipata, presenta degli evidenti limiti di contenuto e stile, depauperando la forza evocativa di un dramma domestico che avrebbe potuto facilmente assurgere a simbolo – come nel resto del cinema farhadiano – di dinamiche ben più profonde. Laura (Penelope Cruz) vive da molti anni in Argentina, dove è infelicemente sposata con Alejandro (Ricardo Darín) e madre di due figli: in occasione del matrimonio della sorella minore fa ritorno in Spagna, in seno alla famiglia d’origine e al paese natio, in cui ritrova tra le figure appartenenti al suo passato anche quella di Paco (Javier Bardem), suo grande amore di gioventù, ora sposato a sua volta e produttore di vino. La lieta situazione conviviale non impedisce di far affiorare rancori, tensioni, passioni mai sopite ancora palpitanti sotto le ceneri del tempo: quando, all’improvviso, la figlia adolescente di Laura scompare nel nulla il non detto e l’irrisolto prendono il sopravvento, deflagrando in tutta la loro cruda violenza e mostrando la fraglità di certi legami, solidi soltanto in apparenza. Lo stile di Farhadi, nonostante l’ambientazione spagnola fittizia e poco credibile, rimane integro nella sua tecnica e originalità; la trama, purtroppo, vira quasi subito verso una detection intricata, che fa il verso banalmente alle storie poliziesche o ai drammi passionali senza aderirvi in pieno. La coppia di star Cruz-Bardem non riesce, pur sforzandosi, a risollevare le sorti di una sceneggiatura debole e sfilacciata. Avrebbero meritato di più.

Barbara Rossi