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Il weekend di metà settembre si caratterizza per l’uscita in sala, nel carnet di proposte che si fa via via più consistente, alla ripresa autunnale, di una pellicola fantasy, ispirata alla figura di Winnie-the-Pooh, e – di tutt’altro genere e target – del film di un giovane regista, che ha deciso di raccontare gli ultimi sette giorni di vita di Stefano Cucchi, il trentunenne romano protagonista, nel 2009, di una tragica vicenda carceraria e giudiziaria non ancora risolta, ai giorni nostri, in tutti i suoi inquietanti aspetti.

Ritorno al Bosco dei 100 Acri di Marc Forster è una trasposizione mediante la tecnologia live action del romanzo di A. A. Milne, pubblicato nel lontano 1953 ma destinato a conquistare trasversalmente generazioni di lettori in tutto il mondo, “Winnie-the-Pooh”. Christopher Robin (Ewan McGregor) è ancora un bambino quando, alla vigilia della partenza per il collegio, è costretto ad abbandonare il Bosco dei 100 Acri e, in particolare, l’orsetto Winnie Pooh e i suoi amici, compagni di giochi. I due non si rivedranno per molto tempo: Christopher, messo a dura prova dalla vita (l’esperienza del collegio, la prematura scomparsa del padre, la guerra, le difficoltà economiche) diventerà un uomo introverso e scostante, emotivamente lontano persino dalla moglie Evelyn (Ayley Atwell) e dalla figlia Madeleine (Bronte Carmichael). Un giorno, però, il vicepresidente della valigeria dove lavora chiede a Christopher di aiutarlo a salvare l’azienda in crisi: rimasto solo nel fine settimana, per studiare una strategia adatta a risolvere il problema, Chris si ritrova all’improvviso in casa il vecchio amico Winnie, a sua volta in cerca di aiuto per trarre in salvo il Bosco dei 100 Acri, minacciato da una fitta nebbia… Molto fedele, anche visivamente, al romanzo originale di Milne (con la riproposizione delle pagine del libro e delle tavole disegnate che esso conteneva), il film di Forster è un ottimo prodotto di intrattenimento: eccellenti i costumi, l’ambientazione, la sceneggiatura, l’interpretazione degli attori (specialmente Ewan McGregor, nella sua dolente espressività), il tutto affinato dalla tecnica di computer graphic messa in campo. Il messaggio veicolato dalla storia non è affatto banale, e destinato a tutti, non solo ai ragazzi ai quali il libro di Milne principalmente si rivolgeva: per diventare grandi, cioè vivere con serenità ed equilibrio nell’età adulta, è necessario conservare gli amori, i desideri, le fantasie, le amicizie, reali o immaginarie (ma qual’è la differenza, sembra domandarsi il film), lo slancio vitale di quando si era bambini. L’essere umano è per sua natura portato a proiettarsi in avanti, verso il futuro, ma non può dimenticare del tutto ciò che è stato, con il rischio di smarrire del tutto il senso del vivere.

Alessio Cremonini, giovane regista già autore di un film come Border, sulla guerra in Siria, dirige Sulla mia pelle, dedicato alla ricostruzione, estremamente rigorosa e precisa ma non retorica o demagogica, degli ultimi sette giorni di Stefano Cucchi, protagonista nel 2009 di una tra le vicende carcerarie italiane più tragiche e clamorose degli ultimi anni. Cucchi – un caso ben noto, e tristemente, all’opinione pubblica – morì il 22 ottobre di quasi 9 anni fa, solo, in una camera dell’ospedale di contenzione Sandro Pertini di Roma, in seguito ai postumi di lesioni sulla natura delle quali sono stati avanzati sin dall’inizio fondati dubbi e sospetti, senza – tuttavia – approdare, come spesso accade nel nostro sistema giudiziario, a una verità condivisa. La sua famiglia – i genitori e la sorella Ilaria (interpretata nel film da una sempre più matura Jasmine Trinca) – non rividero più Stefano vivo e incontrarono parecchie difficoltà anche nell’ottenere dal tribunale l’autorizzazione a potergli dare l’estremo saluto in obitorio, dopo la sua morte. Per quello che accadde dal momento dell’arresto di Cucchi per detenzione e presunto spaccio di eroina, la sera del 15 ottobre 2009, alla sua scomparsa, una settimana più tardi, sono stati assolti i medici del Sandro Pertini; restano indagati cinque carabinieri, tre per omicidio preterintenzionale, due per falsa testimonianza. Altri 176 detenuti come Stefano sono morti in carcere nel 2009, per cause poco chiare. La pellicola di Cremonini mette in risalto tutta questa oscura e dolorosa vicenda, senza omettere il passato difficile di Cucchi (che si era riconosciuto colpevole di fronte al giudice che lo processò in prima istanza per la detenzione di sostanze stupefacenti ma innocente per l’accusa di spaccio) ma anche senza tralasciare alcun dettaglio dei diversi passaggi che portarono alla morte prematura e immotivata del ragazzo. Il regista sceglie una modalità di racconto non forzata, non giocata sull’urlato, sui toni alti, ma – invece – sulla sottrazione, sulla compressione, estetica (Stefano è sempre confinato in spazi angusti, la recitazione del bravissimo Borghi è sofferta e incisiva ma dimessa, per restituire la dignità e la rassegnazione di un condannato a morte) e narrativa (la scansione temporale del racconto). Questa scelta conferisce ancora maggior forza alla denuncia non solo della condizione carceraria in tutti i suoi drammatici ed evidenti limiti, ma anche del diabolico balletto di indifferenza, omissioni, dimenticanze, superficialità, violenza che hanno reso un ragazzo romano del tutto inconsapevole – con un trascorso complicato alle spalle da cui stava tentando di emergere – l’ennesima vittima sacrificale. Il film – presentato a Venezia 75, Sezione Orizzonti, è in proiezione al cinema, in settanta sale, e in streaming sulla piattaforma Netflix.

Barbara Rossi