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Il weekend di metà novembre propone al cinema, tra le altre uscite, due pellicole italiane di un certo interesse. The place di Paolo Genovese, con un cast di attori ricchissimo e composito, da Marco Giallini a Valerio Mastandrea, da Alba Rohrwacher a Sabrina Ferilli e Rocco Papaleo, racconta la perturbante storia di un uomo misterioso, seduto ad ogni ora del giorno e della notte sempre al medesimo tavolo di un ristorante, a scrivere e leggere; e di nove personaggi eterogenei, espressione di un’umanità spesso allo sbaraglio, e che – più di ogni altra cosa – desidera. Cioè aspetta, in fondo molto semplicemente, che qualcosa accada, che qualcos’altro arrivi “dalle stelle”, a mutare il senso e la direzione di marcia della propria vita. Come sa fin troppo bene l’uomo misterioso, però, qualunque desiderio soddisfatto non è senza conseguenza e i compiti da lui via via assegnati a ciascun personaggio servono a rammentarlo in modo fin troppo evidente. Presentato in anteprima, lo scorso ottobre, alla Festa del Cinema di Roma, The Place prende ispirazione da The Booth at The End, la serie ideata nel 2010 da Christopher Kubasik e giunta attualmente alla seconda stagione. Film intimista, da camera, bergmaniano, tutto declinato in un interno gravido di attese, speranze, delusioni, dolori e rimpianti, girato anche in unità di tempo, alla guisa di un teatro filmato, mette in campo la professionalità e la capacità di aderire, di fondersi al personaggio della maggior parte degli attori coinvolti, portando lo spettatore – come accade nella serie televisiva di riferimento – a interrogarsi su dio e fede, uomo e destino, libero arbitrio, significato del tempo e della vita. Unico neo, ma abbastanza grande, è forse l’eccessiva fedeltà della pellicola alla vicenda originale, quasi che Genovese non riuscisse sino in fondo a far prevalere la propria visione personale: si tratta, comunque, di una buona prova.

Giuseppe Battiston, ottimo ma un po’ defilato attore sia cinematografico che televisivo, è il protagonista della pellicola di Antonio Padovan Finché c’è prosecco c’è speranza, ispirata dal ciclo di romanzi gialli di Fulvio Ervas. L’ispettore Stucky (Battiston), detective placido e bonario ma acuto e intuitivo, di origini metà veneziane e metà persiane, si trova alle prese con il misterioso suicidio di un conte, gestore di un grande vigneto sulle colline veneziane portato avanti con i metodi della coltura biologica, per questo inviso a molti; parallelamente, una sfilza di inquietanti omicidi legati alla presenza di un cementificio locale convince Stucky dell’assoluta urgenza di ulteriori indagini. Padovan dà vita a un’opera gialla dal tono leggero, persino scanzonato, autoironica ma ben girata e ben costruita a livello narrativo, che si avvale soprattutto dell’ottima interpretazione di Battiston. Del personaggio di Stucky, come nel romanzo omonimo, si cura molto anche l’aspetto intimo, privato, dominato dal complesso rapporto con la memoria dei genitori. Purtroppo, alcuni dialoghi risultano banali, certe figure un po’ troppo macchiettistiche: lo stile è, a tratti, eccessivamente televisivo. Un film godibile, ma si poteva fare meglio.

Barbara Rossi