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Questo fine settimana di un ottobre ormai avanzato e anche cinematograficamente parlando “caldo” di titoli e novità, ripropone su grande schermo una tra le più immaginifiche ed evocative storie del re dell’horror Stephen King, IT, trasposizione della prima parte (la seconda sarà oggetto di un prossimo film) dell’omonimo romanzo del 1986, già diventato – nel 1990 – una miniserie televisiva di successo. Un giorno piovoso dell’ottobre 1988, nella cittadina americana di Derry, il piccolo Georgie (Jackson Robert Scott), giocando con una barchetta di carta confezionata da suo fratello maggiore Billy (Jaeden Lieberher), si ritrova a guardare dentro l’apertura che conduce allo scarico delle fogne. E’ proprio qui, in questa minuscola porzione di spazio e di tempo sospeso, tipico delle fiabe, che Georgie fa’ la conoscenza di Pennywise (Bill Skarsgård), strampalato e buffo clown, in realtà incarnazione del Male. Sarà l’inizio, per la cittadina della più classica provincia americana, di una battaglia senza esclusione di colpi contro il predominio delle tenebre, condotta per lo più da una banda di ragazzini intelligenti e coraggiosi. Il regista Andrés Muschietti (La madre, 2013) propone una rielaborazione del capolavoro di King onesta e volenterosa, restituendo in immagini e situazioni narrative abbastanza fedeli al romanzo le tematiche cardine dell’universo fantastico dello scrittore di Portland, la forza dell’amicizia, il coraggio e il senso di libertà dell’adolescenza da ogni potere occulto, il maligno e la perversione che si nascondono sotto una patina di rispettabilità e decoro. Non si raggiunge, certo, la grandiosità d’atmosfera del romanzo, forse neppure l’efficacia della versione televisiva degli Anni Novanta; Muschietti si aggrappa per la suspence agli effetti digitali, mentre si evidenziano alcune lacune narrative, la carenza strutturale di alcuni personaggi e figure meglio disegnate da King. La trasposizione, tuttavia, pur non eccezionale, è capace di creare e mantenere sino al finale un buon livello di tensione e di attesa, senza tradire smaccatamente, come avvenuto in altri casi, l’assunto di base dell’opera da cui è tratta.

Jonathan Dayton e Valerie Faris (Little Miss Sunshine, primo premio al Festival di Sudney nel 2006) rievocano l’episodio di cronaca sportiva, risalente al 20 settembre 1973, a Houston, nel Texas, passato alla storia come “la battaglia dei sessi”: ovvero, l’incontro di tennis disputato tra Billie Jean King (Emma Stone), campionessa in carica, e lo sfidante Bobby Riggs (Steve Carell), ex campione a riposo, maschilista convinto, teso a dimostrare la presunta superiorità degli uomini sulle donne nello sport. In palio, centomila dollari e un passo in avanti sulla strada dell’emancipazione femminile. I coniugi Dayton e Faris firmano una commedia drammatica dal ritmo serrato, incalzante, avvalendosi di un nutrito cast di ottimi interpreti, da Bill Pullman (Jack Kramer, il co-fondatore dell’Association of Tennis Professionals) alla protagonista Emma Stone, forse un po’ meno a suo agio e spontanea in questo ruolo rispetto ad altri rivestiti di recente, a Steve Carell, irritante e gigioneggiante quanto basta nei panni di un uomo e un ex sportivo profondamente impregnato dei suoi pregiudizi. Buona anche la ricostruzione d’epoca, il ritratto della società americana sessista degli anni Settanta, solcata dalle lotte femminili (e femministe) per la pari dignità e retribuzione sul lavoro, per la libertà delle proprie scelte e comportamenti nel privato. Una pellicola coinvolgente, nonostante alcune debolezze narrative e qualche banalità, anche a livello formale. All’uscita di La battaglia dei sessi negli Stati Uniti la vera Billie Jean King ha dichiarato: Oggi rispetto a un dollaro guadagnato da un uomo, le donne bianche guadagnano 78 centesimi, le afroamericane 64 centesimi, le donne ispaniche e quelle native 54 centesimi. La presenza femminile al Congresso non arriva neanche al 20 percento. Pochissime sono le donne manager. E ciò che la gente non capisce è che la penalizzazione delle donne penalizza anche le loro famiglie. È un’assurdità che provoca disagio a tutti. Spero che la storia di questa partita continuerà a favorire il dialogo, a unire le persone e a non discriminare. Le cose per cui abbiamo combattuto nel 1973 sono quelle per cui ancora combatto e dobbiamo continuare a farlo.

Barbara Rossi