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Alle soglie dell’estate questo fine settimana cinematografico ci propone anzitutto una commedia scanzonata e leggera, ma non priva di spunti di riflessione, frutto di una coproduzione italo-spagnola: in Quattro donne, due uomini e una mucca depressa, suo terzo lungometraggio, la regista Anna Di Francisca ci racconta le tragicomiche vicende di Edoardo (l’attore serbo Miki Manojlovic), musicista di chiara fama ma desolatamente solo: abbandonato dalla moglie, lontano dalla figlia, lascia anche il proprio lavoro e la propria città, Roma, di cui odia ogni avamposto religioso, per raggiungere l’amico Emilio (Eduard Fernández) in uno sperduto paesino del sud della Spagna. Per combinazione il coro della chiesa del paese ha bisogno di un nuovo direttore, ed Edoardo accetta di dirigerlo, per provare a lasciarsi alle spalle rabbia e frustrazioni. Ci riuscirà, non senza difficoltà e colpi di scena, coadiuvato dall’eterogeneo gruppo di cantori: quattro donne, appunto, l’affascinante divorziata Jiulia (Maribel Verdu), l’agente di viaggi Victoria (Laia Marull),  la frenetica Manuela (Gloria Munoz) e Marta (Ana Caterina Morariu), sua figlia, astronoma con un figlio a carico. Ci sono anche due uomini: Emilio, innamorato di Victoria, e Carlos (Neri Marcoré), più la mucca Luisa. In aggiunta, la domestica Irma (Serena Grandi), muta solo in apparenza, e Sara (Manuela Mandracchia), che non può vivere appieno la sua omosessualità, dato il contesto in cui vive. Avvinto e frastornato dal caos esistenziale e sentimentale di questa pittoresca comunità Edoardo ritroverà proprio al suo interno, e nella “musica” che esprime le ragioni e il senso del vivere. La Di Francisca, supportata da un variegato e ottimo cast di attori, tira le fila di un racconto soddisfacente dal punto di vista narrativo, credibile e vivace nei dialoghi: forse un po’ troppo semplicistico in quanto a raffigurazione di personaggi e costumi, ma è un difetto abbastanza veniale, in questo genere di pellicola.

Anne (Diane Lane) è una donna bella e desiderabile, con un unico, piccolo neo: il marito Michael (Alec Baldwin), produttore hollywoodiano indaffarato e distratto, sempre con la valigia in mano. All’ennesimo viaggio d’affari del consorte Anne sceglie la trasgressione della libertà e Jacques (Arnaud Viard), socio d’affari francese di Michael, tres charmant, come è naturale. Tra i due non nasce la storia d’amore che ci si potrebbe attendere, al massimo una sorta di amicizia amorosa, allegra, disimpegnata ma seducente, che si dipana in un viaggio di piaceri sensoriali e culinari verso Parigi (la celeberrima battuta di Casablanca, “Avremo sempre Parigi”, qui non è affatto peregrina). Un’amicizia, un’intima solidarietà e un viaggio che condurranno Anne alla riscoperta di sé. Con Parigi può attendere Eleanor Coppola, moglie del più noto Francis, regala al pubblico una romantic comedy ironica, disincantata, ma proprio per questo di una serenità disarmante. Diane Lane, la protagonista, imbastisce un ritratto di donna dei nostri anni che possiede, allo stesso tempo, la “classicità” e la naturale eleganza delle figure femminili portate sugli schermi da Ingrid Bergman. Un film piacevole, di puro intrattenimento, ma intelligente, arioso, delicato e non banale.

Una doppia verità, della regista Courtney Hunt, è un thriller teso e angosciato, ambiguo e sfuggente come il suo protagonista, l’avvocato Ramsay (Keanu Reeves), con una marcata propensione al noir: il plot è quello della difesa da parte di Ramsay del giovane Mike (Gabriel Basso), il figlio di Loretta Lassiter (Renée Zellweger), accusato di aver assassinato il padre Boone (Jim Belushi).Tutte le prove (e perfino le tessere mancanti al diabolico puzzle) congiurano inequivocabilmente contro Mike, ragazzo – come se non bastasse – ombroso e chiuso. Ramsay, antieroe chandleriano, porrà in essere una strategia del ragno finalizzata ad accerchiare e ribaltare qualsivoglia semplicistica accusa, sino al colpo di scena finale. Legal thriller a metà strada tra Il grande sonno e I peccatori di Payton Place (con ambizioni e risultati infinitamente più modesti), Una doppia verità, ambientato in una Louisiana solo apparentemente sonnolenta, in realtà sanguigna e violenta sin dai tempi delle tragedie di Tennessee Williams, dopo aver mantenuto un buon ritmo di fondo e una tensione costante, si sfalda non poco nel finale. Uno tra i pregi di questa storia, tuttavia, è quello di restituire un efficace ritratto d’ambiente, quello – appunto – di una piccola comunità americana del sud ancora troppo legata ai propri schemi mentali, spesso deviati e “razzisti” a livello antropologico.

Barbara Rossi