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Nel fine settimana che si apre con la giornata dedicata alla memoria delle vittime dell’Olocausto è d’obbligo segnalare Il viaggio di Fanny, della regista Lola Doillon, che racconta la vera storia di Fanny Ben-Ami, dal suo romanzo autobiografico. Durante la seconda guerra mondiale molte famiglie ebree affidano i propri figli a organizzazioni clandestine, per sottrarli alla persecuzione nazista: così anche la dodicenne Fanny (Léonie Souchaud) è costretta insieme alle due sorelle a separarsi dai suoi genitori. Quando la situazione si aggrava, la ragazzina si unisce a un gruppo di suoi coetanei, per tentare di raggiungere il confine svizzero e avere salva la vita.
Forte della diretta conoscenza della Fanny reale, che oggi – ottantaseienne – trascorre serenamente la sua vecchiaia a Tel Aviv, la Doillon dipinge con pennellate incisive e nel contempo delicate e intimiste il ritratto di una bambina costretta a crescere troppo in fretta, di uno tra i momenti più tragici della nostra storia, di uno spazio e di un tempo dolorosi oltre ogni misura, ma anche forieri di solidarietà, legami e vita.
“Desidero che il mio messaggio venga compreso, affinché alcune cose non si ripetano. Viviamo in un’epoca molto fragile, da ogni parte si levano voci che ricordano moltissimo quelle che si sentivano allora. Questo è molto pericoloso, anche per coloro che non sono ebrei. Perché dopo gli ebrei, andranno in cerca di altri bersagli”, commenta la regista.

Los Angeles, ai giorni nostri. Mia (Emma Stone, Coppa Volpi alla scorsa edizione del Festival del Cinema di Venezia per questa interpretazione) è un’attrice in cerca di ruoli e personaggi da interpretare, ma al momento lavora come cameriera; Sebastian (Ryan Gosling) è un musicista jazz in cerca di affermazione e visibilità, ma per sbarcare il lunario suona nei piano bar. I due si incontrano, scontrano, si lasciano e riprendono, mentre camminano (danzando) verso un futuro costellato dei loro sogni, ma anche di fatiche e delusioni.
In La La land Damien Chazelle, già premio Oscar con Whiplash, maneggia con sapienza e talento visionario un genere particolare, un po’ passato di moda, come il musical, infondendogli energia e ritmo, leggerezza e incanto, nuova linfa.
Il film ha vinto, meritatamente, sette Golden Globe ed è candidato per il 2017 a ben 14 premi Oscar. Il titolo si riferisce a un’espressione inglese che identifica una condizione mentale di benessere, di distacco dalla realtà. E’ ciò che accade allo spettatore dell’ultima opera cinematografica di un regista trentunenne ma già molto maturo, creativo, dallo stile originale.
Casablanca, Gioventù bruciata, Cantando sotto la pioggia: sono soltanto alcune tra le tante citazioni di pellicole che sono diventate delle pietre miliari della storia del cinema mondiale. C’è anche un pizzico di nostalgia molto alleniana in La La land, per quell’affascinante mondo di celluloide che rifulgeva nello splendore del bianco e nero; insieme al tentativo, più o meno consapevole, di ricreare quell’incanto.

Split, l’ultimo incubo cinematografico di M. Night Shyamalan, è un incrocio citazionistico non sempre riuscito di generi, temi, spunti narrativi: dalla fiaba horror al racconto psicoanalitico, dal dramma al fantasy. Casey (Anya Taylor-Joy), ragazza chiusa e introversa, viene rapita con le amiche Claire (Haley Lu Richardson) e Marcia (Jessica Sula) da uno psicopatico, Kevin (James McAvoy), che le rinchiude in uno scantinato e le tiene prigioniere, mostrando loro una dopo l’altra le personalità multiple, ben ventitre, che abitano la sua mente. In attesa di rivelare al mondo la ventiquattresima personalità – la più terribile a detta di Kevin, che la ribattezza “La Bestia” – l’uomo pone a dura prova la resistenza fisica e mentale delle ragazze alla sua mercé, oltre che della dottoressa Fletcher (Betty Buckley), la psicologa da cui è in cura.
Dopo i fasti de Il sesto senso e Signs Shyamalan sembra non riuscire più a trovare una chiave di volta coerente per le sue storie, per evitare che scadano in uno psicologismo d’accatto o in un racconto orrorifico a buon mercato. Non fa eccezione Split, che – straordinaria interpretazione di McAvoy a parte – non riserva, neppure nel prevedibile pseudo-colpo di scena finale, soverchie emozioni.
Apprezzabili, invece, le ambientazioni claustrofobiche e i toni scuri, le ombre espressioniste di cui l’ottima fotografia riempie lo schermo.
Split non è un film pienamente riuscito, ma l’atmosfera sinistra è garantita.

Barbara Rossi

 

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