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Il primo weekend di dicembre si apre sul grande schermo con “Sully”, l’ultimo film di Clint Eastwood, un ritratto di Chesley Sullenberger, l’ex pilota dell’Air Force che il 15 gennaio 2009, due minuti dopo il decollo dall’aeroporto newyorkese di LaGuardia su di un aereo della Us Airways con 155 passeggeri, è costretto dalla collisione con uno stormo di oche a un ammaraggio di fortuna nel fiume Hudson.
Attraverso il complesso dipanarsi della vicenda (il salvataggio riuscito, l’elevamento di Sully a personaggio mediatico, eroe dell’opinione pubblica, la commissione d’inchiesta e le diffidenze del National Transportation Safety Board) e alcune mirate incursioni nel passato pubblico e privato del pilota – cui Tom Hanks presta il suo incredibile volto di uomo comune – Eastwood costruisce con la consueta perizia narrativa un film credibile, intenso, che mira a spezzare la retorica classica dell’eroe.
Sully è uno dei tanti vinti dell’esistenza e della storia, ultimo in ordine di apparizione della nutrita galleria di personaggi eastwoodiani: dalla coppia in guantoni Maggie-Frankie di “Million Dollar Baby” al Walt Kovalski reduce razzista di “Gran Torino” ai soldati disillusi di “Flags of Our Fathers” e “Lettere da Iwo Jima”, sino al cecchino in crisi di “American Sniper”.
Quello di Eastwood è sempre un viaggio intorno e dentro l’uomo, fatto di fango e cielo, con le sue bassezze, le contraddizioni e gli slanci. Anche in questa pellicola, dove il lavoro del montaggio, della fotografia e della musica viene accortamente sublimato in una struttura rigorosa, con poche cadute di tensione o di stile (se non nella parte finale), l’interesse del regista è per la capacità da parte dell’uomo comune di districarsi di fronte all’ambiguità di situazioni di cui non è responsabile. L’eroismo di fatto non consiste nel piantare una bandiera in un territorio sconosciuto, ma nell’abilità di far fronte alle emergenze del quotidiano, mettendosi a disposizione dell’Altro, senza condizioni.

Con “Free State of Jones” Gary Ross (autore del campione d’incassi “Hunger Games”) offre allo spettatore uno spaccato di guerra civile americana, ponendo nel giusto rilievo un episodio di quel drammatico periodo che era rimasto sino ad ora sepolto sotto i sedimenti della Storia.
1862: nel pieno infuriare della guerra l’infermiere sudista New Knight (un dolente Matthew McConaughey) opta per la diserzione, in modo da riconsegnare alla sua famiglia il corpo del nipote, mai soccorso dopo essere stato ferito. In seguito all’esperienza dei molteplici soprusi e vessazioni commessi dai militari verso la gente comune, Knight inizia a radunare una folta schiera di uomini e donne, sia bianchi che neri, per dare vita a un’insurrezione che renderà la contea Jones in Mississippi uno stato indipendente.
Il film ha una struttura tradizionale, un andamento lento, senza essere magniloquente (in questo ricorda “Lincoln” di Spielberg): la vicenda storica è raccontata con dovizia di particolari e precisione, senza compiacimenti estetici cruenti, ma anche con il necessario rigore.
Un’ottima regia, una pellicola che vale non solo per il suo innegabile valore documentario.

“Il cittadino illustre” di Gastón Duprat e Mariano Cohn, presentato in anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia lo scorso settembre e scelto per rappresentare l’Argentina alla candidatura agli Oscar per il miglior film straniero del 2017, racconta la storia di Daniel Mantovani (Oscar Martinez), premio Nobel per la letteratura, da un quinquennio in crisi creativa. A scuoterlo dal torpore contribuirà l’invito arrivato per lettera da Salas, piccolo paese dell’Argentina, sua patria, da cui si era volontariamente allontanato anni prima in reazione alla chiusura culturale del luogo e dei suoi abitanti. L’accoglienza è subito trionfale, ma il trascorrere del tempo farà emergere vecchi rancori e conflitti mai sopiti, con i quali Mantovani sarà costretto a fare i conti.
Piccolo film originale e creativo, commedia brillante ma non troppo, profondamente seria al di sotto della patina comica, “Il cittadino illustre” mette in scena con mano sicura e felicità d’invenzione un mondo marginale, con le sue meschinerie e volgarità, i riti e i miti d’accatto, i piccoli slanci e gli egoismi quotidiani. Interessante e veritiero anche il ritratto d’autore incarnato da Daniel-Martinez, nel discorso che istituisce sulla scrittura, sulle sue regole, valenze, alternarsi di realtà e finzione.
La resa visiva è un po’ carente, difetta un po’ nella forma, come abbastanza prevedibile in un’opera come questa, che privilegia l’aspetto narrativo a quello estetico.
“Il cittadino illustre” rimane, comunque, un piccolo gioiello filmico, da centellinare con calma e attenzione. Perché è in grado di parlarci, molto di più di quello che appare a una visione frettolosa.

Barbara Rossi

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