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Finalmente in ripresa dopo la lunga pausa estiva (almeno nel nostro Paese), la nuova stagione cinematografica approda sugli schermi, già foriera di ottime prove.

Con Dunkirk Christopher Nolan ci restituisce attraverso una messe di immagini poderose e trionfali il senso più profondo di un episodio bellico controverso ma glorioso della storia britannica: nel maggio del 1940 400.000 soldati inglesi accerchiati dall’esercito tedesco per via di mare, di terra e di aria, furono costretti ad organizzare una colossale ritirata, che paradossalmente, nonostante la disfatta, segnò l’inizio della vittoria finale delle truppe europee. Film corale, che mette in campo, soffocati dalla sabbia di un sottile lembo di spiaggia non completamente al riparo dal nemico, personaggi eterogenei senza storia apparente alle spalle, uniti dall’incombente e comune destino (degno di nota il magnifico cast di attori, da Mark Rylance a Tom Hardy, dal veterano Kenneth Branagh a Fionn Whitehead), Dunkirk racconta la Storia confutando le tradizionali convenzioni narrative. Le linee temporali si mescolano, così come gli spazi: una settimana sulla spiaggia, una giornata sul mare, un’ora nel cielo, dentro un affresco imponente ed esteticamente superlativo in cui l’ossessione del regista è, ancora una volta, lo scandaglio del Tempo (vedi Inception, 2010). Come sul palcoscenico di un novello Aspettando Godot, Nolan immerge i suoi protagonisti nell’eterna reiterazione di un tempo ciclico, di una geografia che cancella e confonde confini troppo precisi, edificando un magmatico Non-Luogo della Storia e dell’immaginario dove i destini dei singoli vanno a naufragare e risorgere. Il Nemico, come nel kubrickiano Orizzonti di gloria, rimane invisibile, a farsi simbolo, tra fischi di pallottole e granate invece fin troppo reali, della logica capovolta alla base di ogni conflitto del mondo moderno.

L’inganno di Sofia Coppola, sceneggiato dalla stessa regista, rappresenta l’adattamento cinematografico del romanzo A Painted Devil (1966), opera di Thomas P. Cullinan trasposta in immagini nel 1971 da Don Siegel in La notte brava del soldato Jonathan: una pellicola che vedeva il giovane Clint Eastwood nei panni del soldato ferito John McBurney, letteralmente “vampirizzato” dalle figure femminili di un isolato collegio americano durante la guerra di Secessione. Qui le “antieroine” hanno i volti e i corpi di Nicole Kidman, Kirsten Dunst ed Elle Fanning (rispettivamente nei ruoli di Martha Farnsworth, Edwina Morrow, Alicia; mentre il personaggio all’epoca incarnato da Eastwood ha le fattezze di Colin Farrell). Qui, l’assunto, contrariamente a quanto accade nel film di Siegel e nel romanzo di Cullinan, non è tanto l’efferatezza degenere prodotta da un universo chiuso e oppressivo, il martirio di un’anima e di un corpo, quanto l’analisi – affine alla ricerca contenutistica e formale del cinema della Coppola – delle pulsioni, dei desideri e delle ambizioni frustrate di un gruppo di donne, diverse per età e carattere ma accomunate dall’esperienza della repressione da parte della società dei propri istinti vitali (come già ne Il giardino delle vergini suicide e Marie Antoinette). Questa direzione narrativa è parsa a molti un tradimento dell’assunto di partenza: in realtà è semplicemente il manifestarsi di una prospettiva diversa, di uno sguardo altro su una storia diventata archetipica, con il filtro di una poetica – quella personale della regista – oramai matura e molto chiaramente riconoscibile. Ottima la resa delle atmosfere d’antan ma intimamente claustrofobiche del collegio femminile.

Vincenzo Marra, regista napoletano quarantenne già autore dell’intenso La prima luce con Riccardo Scamarcio nelle vesti di un padre disperato alla ricerca del figlio, portato dalla moglie separata a vivere con sé in Cile, firma con L’equilibrio un film dal chiaro intento di denuncia e insieme di illustrazione di una realtà complessa e amara, quella degli intrecci tra Chiesa e malavita. Don Giuseppe (un bravissimo Mimmo Borrelli) è un prete romano che, dopo aver ottenuto il trasferimento in una parrocchia vicino Napoli, sua terra di origine, si trova a dover fare i conti con le asperità e la corruzione di una comunità in cui il malaffare ha messo radici ormai tentacolari. Con lo stile asciutto e incisivo che lo contraddistingue Marra racconta, attraverso il microcosmo di un piccolo paese campano, la rovina sociale, economica, civile di una nazione a cui sembra piacere il vivere sempre a un rovinoso passo dal baratro. L’equilibrio, nell’analisi impietosa del regista, è introvabile: rimangono i luoghi, dell’assenza, e le figure umane, della rassegnazione, colte nel loro umanissimo perdersi – in lunghi piani sequenza – dentro labirintici e claustrofobici corridoi.

Barbara Rossi