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MILANO – «Dottore; scusi; c’è un’urgenza». L’ultimo intervento di Vincenzo Capacchione; 49 anni; cardiologo; inizia con uno squillo sul telefonino; poco prima delle 6 di sabato mattina. È il «reperibile» all’ospedale di Rho; alla chiamata risponde «arrivo». Attraversa le strade deserte nell’alba estiva di Milano. In corsia; dice soltanto di non sentirsi bene; di «avere un dolore al petto». «Niente di grave»; spiega Vincenzo Capacchione ai colleghi; ha un po’ di febbre; ma dice: «Andiamo». Entra in sala operatoria. Uscirà quattro ore dopo; farà in tempo solo a togliersi i guanti di lattice e scendere in pronto soccorso. Lì si inginocchia e sviene. Muore pochi minuti dopo. Mentre i suoi colleghi cercano di rianimarlo;mentre altri colleghi; al piano di sopra; riportano in corsia il paziente 70enne che il dottor Capacchione ha appena salvato; dopo 3 ore e 40 di intervento. Ha operato un uomo in condizioni gravissime. Cinque minuti dopo (come ha raccontato ieriIl Giorno) il paziente era lui; in condizioni irrecuperabili. Capacchione lavorava all’ospedale di Rho dal 1998. Da poco era diventato responsabile dell’«Unità coronarica». Aveva tre figlie. Racconta Ermenegildo Maltagliati; direttore generale dell’ospedale: «Faceva parte di un team di tre medici emodinamisti che ogni giorno; tra mille difficoltà; ha il compito di salvare la vita alle persone. Siamo tutti vicini alla sua famiglia». C’era probabilmente qualcosa che non andava; nel cuore del medico. Una disfunzione silenziosa; nascosta; di cui neppure lui; cardiologo; s’era mai accorto. I risultati dell’autopsia non sono definitivi; ma sembra che abbia ceduto l’aorta toracica; per un aneurisma. Un problema che era lì; chissà da quanto; e che sabato mattina è arrivato alla rottura. Il paziente era arrivato a Rho con un infarto; era necessaria un’angioplastica: Capacchione l’ha fatta; ma è stata particolarmente difficile; un caso critico. Per un intervento che richiede di solito un’ora; il cardiologo ha dovuto lavorare quasi quattro. E poi lo stress; la stanchezza. Racconta un collega: «Intervenire sul paziente è stato il suo unico pensiero. Non si è comportato da grande medico; ma da medico vero».

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