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L’assassinio come una delle belle arti”. Chissà se Abe Lucas, il professore di filosofia in piena crisi esistenziale per buona parte dell’ultimo film di Allen, in un’ipotetica variante della storia avrebbe amato e preso a modello questo ottocentesco saggio dello scrittore inglese Thomas De Quincey, che con gusto macabro e ironico insieme attribuisce all’omicidio un valore estetico.

Abe è un uomo qualunque, un intellettuale appartenente alla middle class americana, che ha visto repentinamente tramontare speranze e ideali, pubblici e privati, nel generale crollo di ogni apparentemente granitica certezza. Rientra, perciò, a pieno titolo nella vasta galleria alleniana dei disadattati, dei nevrotici, degli sconfitti, i cui vacui tentativi di riscatto risultano inevitabilmente, nel destino già segnato delle cavie di laboratorio, disperati ed estremi.

Il Lucas reso con sguardo assente e seducente pinguedine da Joaquin Phoenix è una terrificante mistura di accidia e feroce intraprendenza, di abulia e schopenhaueriano vitalismo, di impotenza e lussuria.

Del tutto privo di fede in un salvifico trascendente, come lo Stanley Crawford protagonista di Magic in the moonlight, ma a differenza di quest’ultimo non pacificato dall’incontro con un autentico sentimento amoroso, Abe illustra scetticamente ai suoi studenti perfino le grandi costruzioni del pensiero, mettendone in luce contraddizioni e aporie.

La sua solitudine esistenziale, il suo gelo interiore, non scalfiti neppure dall’attrazione che senza volerlo affatto riesce a suscitare rispettivamente in una collega e in una studentessa (una Jill Pollard-Emma Stone sempre più icona alleniana, sospesa tra innocenza e malizia) del campus dove insegna, non possono che trascinarlo sull’orlo del baratro, e anche oltre.

Se dio è morto, se l’inferno sono gli altri, se a nulla valgono gli imperativi morali kantiani, l’unica cura per il male di vivere è la pratica dell’omicidio, concretizzata con infantile entusiasmo e giustificata nel suo costituire l’extrema ratio di un universo senza senso alcuno, dominato soltanto dalle irridenti leggi del Caso.

Vicina all’impostazione da tragedia greca di Crimini e misfatti e Match Point, ma – se possibile – con ancora maggiore, desolata ironia, Irrational Man è una commedia nera forse meno riuscita di altre prove alleniane, che mira in ultima istanza a confermare il vecchio assunto di un altro grande pessimista del cinema mondiale, Stanley Kubrick: «La cosa più terrificante dell’universo non è la sua ostilità ma la sua indifferenza; se riusciamo però a venire a patti con quell’indifferenza e ad accettare le sfide della vita entro i limiti mortali – per quanto sia in grado di fare l’uomo volubile – la nostra esistenza in quanto specie può avere un senso e un compimento reali. Per esteso che sia il buio, dobbiamo fornire noi le nostre luci».

Barbara Rossi

Di Fausta Dal Monte

Giornalista professionista dal 1994, amante dei viaggi. "La mia casa è il mondo"

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