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Presentato in concorso – unico film italiano – al 36esimo Torino Film Festival, in fase conclusiva proprio in queste ore, Ride, opera prima di Valerio Mastandrea, unisce più registri narrativi e stilistici (il dramma, la commedia, sino alla tragedia grottesca) per affrontare il delicatissimo tema delle morti sul lavoro e di un’elaborazione del lutto che si fa sempre più difficile e complessa, sia sul piano privato che su quello collettivo. “Oggi è difficile entrare in contatto con le proprie emozioni a causa di un sistema che dimentica presto”, sottolinea l’attore-regista. “Non bisogna mai permettere di diventare passivi, di perdere il senso dell’umanità. I media stanno addosso a queste cose, ma solo per poco tempo per passare poi a una nuova notizia più fresca. Bisognerebbe vivere queste cose in maniera sana, ormai alla morte sul lavoro ci siamo abituati come se la ‘morte bianca’ sia normale. C’è una società che non vede, non vuole vedere e in questo c’è solo grande ipocrisia”. Questa densità di tematiche e spunti di riflessione viene ben condensata da Mastandrea nella vicenda di Carolina (Chiara Martegiani, compagna del regista), che ha perso da poco il marito, operaio morto sul lavoro, appartenente a una famiglia impiegata in fabbrica da tre generazioni. E’ maggio, e le nuvole gonfie di pioggia, l’acuto senso di perdita contrastano con quella che dovrebbe essere la vitale dolcezza del mese, con il paesaggio marino (siamo a Nettuno, poco fuori Roma) che fa da sfondo alla condizione interiore di Carolina e del resto della sua famiglia. Ciascuno, di fronte al dolore, reagisce a suo modo: Cesare (Renato Carpentieri), il padre di Mauro, operaio in pensione, prova a fare i conti con rabbia, disperazione e volontà di rivalsa, Nicola (Stefano Dionisi), fratello dello scomparso, si confronta con la figura dell’assente, con quella paterna e se stesso, Bruno (Arturo Marchetti), il figlio adolescente, tenta di esorcizzare il dolore preparandosi a un’intervista televisiva in cui dovrà raccontare quanto accaduto. E’ Chiara, però, il personaggio più solitario, congelato nella propria sofferenza, che non riesce a fuoriuscire da nessuna parte e, per questo, si manifesta come stato catatonico, incapacità di piangere, di sfogarsi. La regia di Mastandrea accumula elementi, si affida a uno stile secco e asciutto, si fa sempre più seria e propositiva via via che la storia avanza, per denunciare senza clamore ma con forza, per indagare nelle pieghe del sentimento di perdita, nell’elaborazione del lutto. Un buon esordio, un po’ sfilacciato, a tratti, a livello narrativo; uno stile originale, ancora soltanto un po’ confuso.

Bohemian Rhapsody, del regista americano Brian Singer (autore di numerosi episodi della saga di X-Men, sostituito frettolosamente, in corso d’opera, dal non accreditato Dexter Fletcher), prova – su sollecitazione dello stesso gruppo dei sempiterni Queen – a rinverdire, a scopo propagandistico e commerciale, fasti, mitologia e memoria legati alla figura di Freddie Mercury, leader carismatico, uomo e artista sopra le righe, così caratterizzato – a livello caratteriale e fisico – che risulterebbe impossibile a qualsiasi trucco di scena di qualsivoglia biopic come questo restituirne l’aura in maniera efficace e realistica. La finzionalità è evidente e, purtroppo, nonostante gli sforzi di Rami Malek per far aderire quanto più possibile alla propria pelle quella di Mercury, è alla base di una pellicola frettolosa, piuttosto inconsistente anche come ricostruzione storica, che non aggiunge nulla a una vicenda umana e artistica già molto conosciuta. Si può ipotizzare, a questo punto, che non abbiano giovato al lavoro le vicissitudini produttive (in prima istanza per il ruolo di Freddy era stato reclutato Sacha Baron Cohen, così come Stephen Frears in qualità di autore); unico momento ben ricostruito e azzeccato del plot rimane la ricostruzione del trionfale concerto Live Aid del 1985 al Wembley Stadium su cui si apre e si conclude il film, curato nei minimi particolari e in grado di restituire – come non avviene nel resto del biopic – emozione, magia e fascino spettacolare di una formazione musicale tra le più importanti e rappresentative della contemporaneità.

Barbara Rossi