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Il piccolo Cocò è diventato il simbolo di una mafia spietata che non rispetta neanche più i bambini, perdendo anche quell’alone di onorabilità che per tanti anni l’avvolgeva. Papa Francesco ha ricordato all’Angelus quella povera vittima; i telegiornali ne hanno parlato per giorni e fior di giornalisti gli hanno dedicato gli editoriali. Noi, però, ci chiediamo: chi ha ucciso Cocò, il povero bimbo di tre anni bruciato nell’automobile del nonno? La mafia certamente, ma con il concorso dello Stato. Perché quel piccolo era stato affidato al nonno, sorvegliato speciale, con precedenti per spaccio e associazione mafiosa in un contesto familiare che vede nonne, madre, padre e zie in carcere? Inoltre il nonno, Giuseppe Iannicelli, pur essendo sposato, conviveva con una compagna mentre la moglie era in carcere. Non c’erano sufficienti condizioni perché quel bambino venisse affidato ad altri? Dove erano gli assistenti sociali, così solerti nel togliere figli a famiglie perbene e di cui la cronaca è piena, salvo dopo anni dire “Ci siamo sbagliati”? In alcune sentenze si legge che la sottrazione è giustificata da semplici condizioni di pregiudizio, non era forse la crescita e la formazione di Cocò pregiudicata dal contesto? Il Tribunale dei Minori, ora, ha trasferito le sorelline di Cocò e i cugini in un luogo protetto, troppo tardi, cari rappresentanti dello Stato. Cocò è stato, sì, ucciso da degli infami ma lo Stato con la sua inettitudine, i suoi paradossi, la sua negligenza ha concorso a questo omicidio e deve ritenersi colpevole: non ha vegliato e non ha tutelato un suo giovane figlio. Smettiamola di dire che Cocò è stato un bambino sfortunato, nato sotto una cattiva stella, è stato un cittadino non protetto dallo Stato a cui, ahimè, apparteneva.

Fausta Dal Monte

Di Fausta Dal Monte

Giornalista professionista dal 1994, amante dei viaggi. "La mia casa è il mondo"

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