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La ripresa dell’emigrazione italiana è un dato di fatto: il Paese in crisi, la depressione e la recessione economica, l’aumento della disoccupazione ma, soprattutto, la mancanza di speranza hanno spinto gli italiani a fare la valigia e trasferirsi all’estero

A.A.A. Cercasi italiano per manovalanza. Storie di chi ce l’ha fatta e di immigrati in un mondo solo apparentemente globale

 

La ripresa dell’emigrazione italiana è un dato di fatto: il Paese in crisi, la depressione e la recessione economica, l’aumento della disoccupazione ma, soprattutto, la mancanza di speranza hanno spinto gli italiani a fare la valigia e trasferirsi all’estero. Molti i reportage che illustrano quanto si stia bene in nazioni come la Germania, i Paesi Scandinavi, la Svizzera, soprattutto se paragonati al nostro welfare, ai nostri ammortizzatori e servizi sociali.
Nel 2012 la fuga dall’Italia è cresciuta del 30%, l’emigrante-tipo è di sesso maschile sui trent’anni e lombardo, secondo i dati più recenti dell’Aire, Anagrafe della popolazione italiana residente all’estero. La Lombardia è la regione che alimenta di più l’emigrazione, seguono il Veneto, la Sicilia ed il Piemonte con ben 6134 emigrati, davanti al Lazio, Campania, Emilia Romagna.
Nella prima parte di questo 2013 l’emigrazione è continuata a crescere rispetto al 2012 con un 52% in partenza dal sud, il 32% dal nord e il 15% dal centro.
Il 62% degli emigrati ha scelto come luogo l’Europa e, nello specifico, Germania e Svizzera, seguita da America meridionale, America settentrionale e centrale e, infine, Asia, Africa ed Oceania.
Le comunità di cittadini italiani all’estero numericamente più grandi continuano ad essere quella argentina (691.481), quella tedesca (651.852), svizzera (558.545), la francese (373.145) e la brasiliana (316.699). Tra gli emigranti che scelgono la Cina si sta verificando un nuovo fenomeno: si tratta di quei cinesi di “ritorno”, cioè nati e cresciuti in Italia che decidono di portare nella terra d’origine della propria famiglia. La loro preparazione culturale, l’istruzione e il know how tutto italiano; così, c’è un crescente flusso di forza-lavoro intellettuale come architetti, urbanisti, medici e conservatori del patrimonio artistico che decidono di lasciare l’Italia e di andare in Cina.
Si parla altresì di cervelli sempre più in fuga e, allora, abbiamo provato a iscriverci ai vari siti per trovare lavoro all’estero sia in lingua italiana che straniera. Abbiamo sottoposto un curriculum di alta specialità e con vasta conoscenza delle lingue in varie nazioni come Inghilterra, Germania, Canada, Stati Uniti, Australia. Il risultato è che difficilmente troverete lavoro attraverso questi siti; sono, più che altro, dei circuiti piuttosto impersonali. In un caso siamo stati chiamati sul recapito telefonico che avevamo fornito e ci hanno offerto il visto a fronte di una spesa di un pacchetto di istruzioni per la modica cifra di 1200 dollari.
Il sito più serio che abbiamo incontrato sul nostro percorso è tedesco, un ufficio di collocamento ufficiale del governo tedesco che opera on line: ci hanno risposto prontamente ma ci hanno detto che per i profili alti ci sono già i tedeschi. Siamo andati in fondo alla nostra inchiesta e abbiamo dunque scoperto che è in crescita l’emigrazione ma chi parte deve esser disposto, se ha un certo grado di professionalità, a fare un lavoro inferiore rispetto alla sua preparazione ed esperienza; in Germania gli italiani sono i benvenuti ma per posti come cameriere, muratore, operaio, addetto alle pulizie. I profili alti seguono un altro percorso: i professionisti riescono ad inserirsi se finiscono, per esempio, l’università all’estero oppure se fanno un master di specializzazione post-laurea nella nazione dove vogliono trasferirsi. Se si vuole far parte dei cervelli in fuga è bene incominciare il più presto possibile, quando si è ancora all’università, provando le varie borse di studio. L’italiano che emigra, quindi, va a coprire ruoli inferiori rispetto alle sue qualifiche spinto dal fatto che in Italia è rimasto senza lavoro. Un’emigrazione della crisi senza un miglioramento di posizione, alla faccia della globalizzazione e dei trattati che sanciscono la parità della circolazione delle merci e delle persone.

Fausta Dal Monte

 

 

Fuga dall’Italia

dpny-invernoUna storia di fuga piemontese. Consci della tragedia appena successa a Lampedusa, questo articolo non vuole essere irriverente verso l’accaduto ma, semplicemente, parlare anche di avventure positive e incoraggianti.

Daniele Ravetta, classe 1979, piemontese DOC, figlio di vignaioli, ci ha raccontato la sua storia a lieto fine partendo dall’ultimo anno di studi.
Succede che comincia gli studi nel settore agrario e vitivinicolo prima ad Alba e poi all’università di Grugliasco che, per i mesi finali prima della tesi, prevede uno stage di 6 mesi.
A soli 23 anni viene mandato in Francia, dove si ritrova a gestire 900 ettolitri di vino prodotto da Chateau D’Estrelle, nelle zone del Medoc, a nord di Bordeaux, tramite la collaborazione dell’Ecole National Du Trabai D’Agricole.
Laureatosi poi nel 2002, Daniele è un enologo a tutti gli effetti, cresciuto in mezzo alle viti e, ormai conoscitore dell’arte della vinificazione, si tuffa nella C.I.A. (Consorzio Agricoltori) per cominciare una serie infinita di progetti migliorativi del mondo vinicolo.
La prima grande delusione arriva dopo 5 anni, quando, per una serie di cambiamenti gestionali e politici, il progetto più importante viene affondato.
L’idea era semplice ma geniale, molto probabilmente troppo orgogliosa o forse solo romantica; sta di fatto che si era arrivati a un accordo tra 14 cantine del Piemonte che avrebbero accorpato un unico vino, un’unica qualità prodotta con i 500.000 ettolitri di esubero che ogni anno i produttori si ritrovano invenduto, una bottiglia che avrebbe rappresentato nel mondo la forza della nostra terra nei paesi come Cina, Colombia, Venezuela e Brasile. Proprio in quest’ultimo paese, alla ricerca di ‘terreno fertile’ per un nuovo mercato, Daniele si trova ad imbastire un nuovo progetto di scambio: il nostro vino per il loro caffè. Diciamo che poteva sembrare un po’ l’accordo che cercò di fare Mattei con il petrolio in cambio di macchinari ma anche in questo caso i poteri forti misero un cuscino sopra all’idea e la soffocarono (il vino in esubero è stato destinato alle grandi marche come Zonin, Tavernello ecc. ndr). Nel 2009, quindi, dopo un anno di spostamenti per il Sud America, il nostro enologo incontra un personaggio che sembra uscito da un romanzo di Bukowski: VOLMAR ZOCCNE, un super cuoco pluristellato. I due, trovatisi in sintonia, aprono dal nulla un’attività molto in voga ormai in tutto il mondo, un’agenzia “salva ristoranti”, la ZOKI&D.M. N, con la quale si guadagnano da vivere mettendo a disposizione dei ristoranti in crisi le loro capacità e riportandoli in auge.
IMG_0663-(1)L’avventura dura un anno; poi il cuoco sparisce, Daniele torna a essere uno spirito libero e si sposta a San Paolo. Qui gli viene in mente di presentarsi al DPNY, un resort con tre ristoranti, tre ettari di spiaggia e architettura vacanziera, un posto da 1500 euro a notte, che lo accoglie a braccia aperte, perché italiano, ed esperto di vino e turismo della ristorazione. All’età di 34 anni, Daniele Ravetta finisce sui giornali per la sua spiccata capacità di adattarsi, scoprire cose nuove e, soprattutto, la sua forte professionalità.
“Sono un curioso, amo i miei posti ma mi rendo conto, quando torno in Italia, che non avrei mai potuto diventare quello che sono senza tutte queste ‘nasate’, senza averci creduto e provato, la mia fuga dovete vederla in chiave costruttiva; qui abbiamo tutto da imparare ma poi dobbiamo andare lontano per usare questa ricchezza. Erano 4 anni che non tornavo, ho vendemmiato con mio padre, è stato emozionante, poi il terzo giorno ha piovuto e ho capito l’indole del piemontese, che è quello di chiudersi in casa e aspettare che smetta; io là, invece, ho imparato a trovare soluzioni gioiose: “Papà -gli ho detto- piove? E allora andiamo in Liguria a mangiare i pesci. Guido io, tranquillo”

Mario Andrea Morbelli

 

 

Campo Nomadi di Tortona

Foto-#1È difficile raccontare una visita a un campo nomadi. Ognuno si fa un’idea di cosa potrà mai vedere, basandosi su quanto ha sentito dire da altri e, occorre ammetterlo, su certi pregiudizi che s’insediano col tempo in tutti, compresi quelli che menano vanto di non averne. Una volta giunto sul luogo, ti trovi spaesato perché ti sei sbagliato a immaginarti una determinata cosa invece che un’altra. Non ti basta nemmeno aver osservato i volti dei suoi abitanti, le roulotte e i prefabbricati, i luoghi d’incontro e gli arredi per affermare di aver compreso questa realtà che convive con quella che ti appartiene ma che senti ancora distante. Il campo nomadi di Tortona si trova lungo la strada provinciale per Castelnuovo, è stato riconosciuto ufficialmente nel 2001 ed è occupato da famiglie di sinti. Essi rappresentano una delle etnie della popolazione romanì, si presume che siano di origine indo-pakistana ma sono italiani al 100%. Entro nel campo accompagnato da Don Roberto Cattaneo, appartenente al Convento dei Cappuccini della città, e mi trovo in un ambiente rigorosamente strutturato. Un vialone centrale lo attraversa per tutta la sua estensione. Ai lati vi sono le roulotte e i prefabbricati dove vivono i vari nuclei famigliari (4-5 per un totale di 250 persone). C’è ordine e pulizia, niente degrado. Mi colpisce un santino appariscente di Padre Pio, ne vendono in certe stazioni di servizio autostradali. La prima reazione quando scendo dall’auto è di diffidenza. Ovvio, si potrebbe dire che è reciproca. Non vorrei fare o dire qualcosa di sbagliato, sono lì per raccontare quello che vedo, né più né meno. Chi è questo ragazzo e cosa è venuto a fare con Don Roberto. Questa coltre di circospezione è diradata dalle donne: ti si avvicinano, ti salutano, ti chiedono se vuoi un caffè e il motivo della tua visita. Ti mettono a tuo agio.Foto-#8
Don Roberto Cattaneo conosce bene il campo e i suoi abitanti. Vi si reca per le funzioni del suo ministero ma anche per portare offerte alimentari e altri beni. Parlandoti dei sinti, ti dice che è rimasto colpito dal loro culto dei morti, che sentono vicini tanto quanto i vivi, segno di un forte senso di comunanza “che noi cristiani abbiamo perso”. Come uomo di Chiesa è stato tra i primi ad approcciarsi a loro, trovando una sponda nel Vescovo di Tortona, mons. Martino Canessa ma, per molto tempo, non in tutta la curia locale, forse vittima delle dicerie che circolano tra la gente, spesso create ad arte per seminare zizzania. Gli enti locali, Comune in primis, si sono dimostrati aperti e collaborativi nei confronti di questa realtà grazie alla mediazione dei servizi sociali (che hanno aiutato con le pratiche anagrafiche e con le utenze idriche ed elettriche). Il rapporto con la cittadinanza, invece, è pressoché nullo: per molti, sinti, zingari, rom, gli stranieri in generale, sono tutti uguali, tutti potenziali delinquenti. Da parte loro, i sinti tendono a muoversi in gruppo e mai da soli in città, fanno molta fatica ad attaccare bottone con i “gagi”, cioè gli altri. Eppure, non sono completamente avulsi dalla vita sociale della zona, anzi: i bambini vanno a scuola, giocano a calcio con i coetanei, gli adulti che lavorano sono conosciuti e apprezzati. Tra questi c’è Elvis Raimara, il “responsabile” del campo. Suo padre lo aprì nel 1983, da qualche anno è il punto di riferimento della comunità. Raccoglie ferro per aziende locali, attività molto diffusa tra i sinti insieme a quella di giostrai (gli Orfei e i Togni, per dire, sono di origine sinti). Sono pochi, però quelli che l’hanno, un lavoro, perlopiù in nero. Anche la scuola offre pochi sbocchi dopo le medie, eccezion fatta per alcune borse studio che hanno portato un paio di ragazzi alle superiori. “Non siamo dei santi, anche noi sbagliamo, ma non siamo delinquenti”, afferma Elvis. “I media tendono a parlare di noi solo in termini negativi e mai quando facciamo del bene, per esempio in iniziative di solidarietà”. Sinti uguale delinquenti, siamo sempre lì. Andare oltre alle apparenze, conoscere la realtà e non avere paura di riconoscerla, nel bene e nel male. Ecco, questo si può raccontare di una visita a un campo nomadi.

Stefano Summa

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