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Più di 800 milioni di persone al mondo soffrono di fame

Ogni anno vengono buttati nel cestino 70 chilogrammi di cibo pro capite
Il 30% dell’acquistato finisce nella spazzatura, per un valore di circa 510 euro

Più di 800 milioni di persone al mondo soffrono di fame, con un aumento previsto della domanda di cibo attorno al 60% in prossimità del 2050. Eppure, a livello globale, quasi un terzo della massa di cibo prodotta è sprecato lungo i vari passaggi della catena alimentare, dal produttore al consumatore, passando dal distributore.
Si tratta di circa 1.3 miliardi di tonnellate andate perdute, equivalenti al 25% delle calorie elaborate in tutto il mondo. Queste sono le statistiche che emergono da uno studio dell’High Level Panel of Expert on Food Security and Nutrition (HLPE), equipe incaricata dal Committee on World Food Security (CFS) delle Nazioni Unite di pubblicare un rapporto su questo tema, pubblicato nel giugno 2014.
Emerge dalla relazione, che i Paesi con reddito pro-capite medio-alto, presentano sprechi alimentari a livello della distribuzione e del consumo, mentre quelli a reddito basso dissipano risorse nella produzione e nella fase post-raccolto.
È stato calcolato che in Europa e America settentrionale sono lasciati al macero 280-300 kg di alimenti pro capite l’anno, in Africa sub sahariana e Sud Est asiatico 120-170 kg pro capite all’anno.
Gli europei buttano via di più i cereali, mentre gli africani disperdono maggiormente il latte. Anche frutta e verdura non sono esenti da questo problema.
Gli effetti dello spreco alimentare sono molteplici e di grave entità: riduzione delle disponibilità a livello locale e globale, irrigidimento del mercato e innalzamento dei prezzi per mancanza di materia prima, effetto dissipativo sull’utilizzo delle risorse naturali, privazione di qualità e valore nutrizionale dei cibi stessi, perdite economiche e insufficienti ricavi in relazione agli investimenti attuati.
Le cause del fenomeno sono suddivisibili in tre categorie.
A livello micro, si compiono errori nella pianificazione della rielaborazione dei cibi dopo il preliminare raccolto e nella conservazione dei prodotti facilmente deperibili.
A livello intermedio, non sono applicate buone pratiche nel corso della catena alimentare, i cui attori spesso peccano di coordinazione nei propri sforzi e d’intercomunicazione.
Alla qualità pessima delle infrastrutture si aggiunge l’esistenza di standard qualitativi, imposti dalle catene di distribuzione (per es. grandi supermercati), non sempre all’insegna della riduzione dello spreco alimentare. In particolare, le date di scadenza di alcuni prodotti non rappresentano effettivamente un indicatore della commestibilità degli stessi, piuttosto un presunto limite della qualità, dettato da logiche di natura prettamente commerciale e non necessariamente salutistica. Nei paesi meno sviluppati, scarseggiano adeguate tecniche d’imballaggio e stoccaggio dei cibi, oltre a strutture dove poterli conservare con le dovute cure.
A livello macro, infine, si assiste alla sussistenza di sistemi alimentari mal funzionanti, frutto di assenti politiche di coordinamento da parte d’istituzioni locali, nazionali e internazionali.

Stefano Summa

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L’Italia, Paese rinomato per la sua solida e ricca cultura culinaria, non si esime dal gettare via ingenti quantità di cibo. Ciò affiora da una serie di studi commissionati dalla Coldiretti all’Istituto ixè negli ultimi anni. Secondo tali rapporti, il 73% degli italiani ha sì ridotto l’entità degli sprechi alimentari, facendo una spesa più oculata (80%) e osservando attentamente le date di scadenza (37%). Si riutilizzano maggiormente gli scarti (56%) e si riducono le dosi acquistate (26%). Tuttavia, nel 2013 sono stati buttati nel cestino 76 kg di cibo pro capite. Le famiglie mettono nella spazzatura il 30% dell’acquistato, con prodotti del valore circa di 510 euro finiti direttamente dallo scaffale alla pattumiera, passando per le case e gli esercizi commerciali (in particolare, bar e ristoranti).
Il fenomeno presenta picchi notevoli nel corso delle festività, specialmente nel periodo natalizio, ma non scompare nel resto dell’anno, anzi. Nei dodici mesi giacciono invendute 240 mila tonnellate di alimenti per un costo complessivo di oltre un miliardo di euro. Perché si spreca tale ingente quantità di cibo? Coldiretti e ixè si concentrano sulla progressiva sottrazione di tempo dedicato all’alimentazione: si presta meno attenzione nella fase di acquisto, prediligendo sempre di più prodotti meno costosi e offerte speciali all’insegna della sovrabbondanza. Secondo un sondaggio GPF, si passano meno minuti a preparare il pranzo (35’, -4,7% rispetto al 2013) e la cena (33’, -2,7% rispetto al 2013). Non si fa ancora abbastanza per conservare meglio i cibi e recuperare gli avanzi, non solo i resti di pasti precedenti ma anche prodotti mai aperti, scaduti o deteriorati. Questi comportamenti sono specialmente diffusi tra i single.
Al ristorante, poi, fatica ancora ad affermarsi la “doggy bag”, cioè il contenitore nel quale riversare quanto non s’è consumato, in modo da poterlo gustare in seguito a casa. Solo il 33% degli intervistati la richiede, di cui il 23% lo fa saltuariamente, il 10% con regolarità. Il 24% non ne fa domanda per la vergogna, mentre il 18% non se ne cura per niente.
L’effetto dello spreco alimentare sul settore dell’agricoltura è considerevole. Da quattro anni i prezzi agricoli mondiali sono in costante calo, senza escludere alcuna merce: latte e prodotti caseari, cereali, zucchero, uova, frutta, verdura, bestiame e ovicoli. Coldiretti afferma che, a causa dei mancati introiti, diverse aziende agricole si trovano costrette a abbandonare intere aree rurali o a cederle a grandi gruppi, che gestiscono i frutti della terra come strumenti per speculazioni finanziarie (il cosiddetto “land grabbing”). In questo modo, i prezzi delle materie prime non sono più legati alla consueta dinamica della domanda e dell’offerta ma, invece, a una logica del tutto connessa alla finanza. Gli effetti di questo fatto sono costituiti da una depressione delle attività locali e dalla perdita di varietà nelle coltivazioni, in favore di un’omologazione delle stesse.

Stefano Summa

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Robert Kennedy: 18 marzo 1968

Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale nè i successi del Paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”. Con queste parole, il 18 marzo 1968 il senatore degli Stati Uniti Robert Kennedy incantava la platea dell’Università del Kansas, pronunciando un discorso che sarebbe passato alla storia. Tre mesi dopo, Kennedy fu ucciso con un colpo di pistola al termine di una campagna elettorale che con ogni probabilità lo avrebbe portato a ricoprire la carica di Presidente. Le sue parole, vecchie di 46 anni, rimangono incredibilmente attuali, facendoci riflettere ogni qualvolta leggiamo sui giornali i proclami in materia economica dei nostri politici, i quali sembrano sempre più convinti che il benessere reale della popolazione passi attraverso l’analisi di freddi dati statistici. Poco dopo la morte di R. Kennedy, l’economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen teorizzò come termini quali “crescita economica” e “incremento della produzione industriale”, fossero già allora obsoleti. Secondo Georgescu-Roegen infatti, le scienze economiche devono tenere conto dell’ineluttabilità delle leggi della fisica, in maniera particolare, del secondo principio della termodinamica, secondo cui, per definizione, al termine di ogni processo produttivo la qualità dell’energia, cioè la possibilità che l’energia possa essere utilizzata da altri, è sempre peggiore rispetto alla situazione iniziale. Ne consegue il fatto che qualsiasi attività economica necessaria per produrre merci materiali diminuisce la disponibilità energetica nel futuro, compromettendo dunque la possibilità di produrre altre merci e cose materiali. L’attuale sistema economico, basato sul consumismo e sulla produzione industriale continua, che piaccia o meno, è destinato a terminare. Ce lo dice la scienza. Invertire la rotta risulta altresì un’impresa impossibile, un po’ perché abbandonare il sistema consumistico andrebbe a sconvolgere gli equilibri economici costituiti, seppur fragili, un po’ perché ciò sconvolgerebbe le nostre abitudini di vita. Nel nostro piccolo, però, possiamo dare tutti il nostro piccolo contributo per allontanare la caduta nel baratro, consumando coscienziosamente ciò che acquistiamo. Durante il vostro shopping natalizio quindi, ricordatevi gli insegnamenti che Kennedy e Georgescu-Roegen ci hanno lasciato.

Marcello Rossi

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